A guardare l’uso dei colori nei costumi e il modo in cui Karim Ainouz fa parlare le architetture si direbbe che A vida invisivel de Euridice Gusmao sia un omaggio a Douglas Sirk. Lo è sicuramente, nella misura in cui il film si confronta in generale con il melodramma familiare, anche attraverso il filtro di Pedro Almodòvar, giocando con un tono personale più composto e malinconico.

Tratto dal romanzo omonimo di Martha Batalha, caso letterario in Brasile negli ultimi anni, racconta la vita di due sorelle affezionatissime costrette a separarsi dal bigottismo del padre quando una delle due decide di partire per amore e torna sola e incinta. La sceneggiatura del regista con Murilo Hauser e Inés Bortagaray segue le due vite, quella movimentata e turbolenta di Guida e quella, appunto invisibile, della Euridice del titolo legandole con il filo sottile dell’affetto e del rapporto delle donne con i propri diritti.

Ambientato negli Anni ’50 fino ai giorni nostri, nei quali la presidenza Bolsonaro ha riaffermato le posizioni tradizionaliste e maschiliste della cultura brasiliana, il film di Ainouz deduce la propria prospettiva politica e le proprie posizioni dal racconto, dalla gioia del gesto della narrazione - nel film esemplificata dalle lettere che Guida scrive alla sorella e che fanno da filo rosso -, dalla cura nella ricerca estetica che sottolinea il lavoro sui personaggi, due complesse figure femminili che si confrontano con il tempo più che con la storia, con la psiche e con il corpo più che con l’ideologia.

 

Proprio come un Almodòvar meno esplosivo e più trattenuto, Ainouz costruisce il crescendo emotivo con calma e perizia, arrivando a commuovere lo spettatore in modo naturale e nel frattempo mostrando intelligenza nell’adattare allo sguardo e al cinema lo spirito letterario del racconto. E scovando il talento e il carisma di Julia Stockler, il cui sguardo e volto promette la potenza fiera e vitalmente sensuale di una Penelope Cruz degli esordi.