Si potrebbe partire da L’albero dei frutti selvatici di Nury Bilge Ceylan, dai versi del poeta Yunus Emre che il regista fa recitare ai suoi personaggi.

“Mentre camminavo lungo la strada, vidi un albero alto e allungato. Era così affascinante, così dolce, che il mio cuore disse: Svelami un segreto”.

La verità celata è al centro anche di The Domain (A Herdade). E proprio un albero è testimone della storia di una nazione, di una famiglia.

A Herdade
A Herdade
A Herdade
A Herdade

Troneggia al centro della vallata, sopravvive all’andare degli anni. Dal 1946, fino quasi ai giorni nostri. Resta immobile, assiste alla nascita dell’identità del Portogallo che conosciamo oggi. Porta sui suoi rami un popolo che addirittura si “impicca” (lo vedrete nella prima sequenza) per non dover fronteggiare la dittatura che lo opprime, il regime di Salazar, l’Estado Novo. Mentre ovunque infuria il conflitto mondiale.

Forse quel suicidio con cui si apre The Domain (A Herdade) incarna il senso di colpa di un Paese che ha scelto di non schierarsi. Ellissi. Si arriva alla guerra in Angola, alla decisione di imporsi, di farsi vedere forti sullo scacchiere internazionale. Si ribalta la prospettiva. Il protagonista si ribella alle decisioni dei governanti, e Tiago Guedes mette in scena il pentimento per un passato non troppo lontano. Poi la rivoluzione dei garofani, gli eccessi della mentalità comunista. La caduta dei “padroni”, di Caetano. Ellissi. Il sistema bancario, il millennio che volge al termine, le regole che cambiano. Ed è qui che inizia la vera espiazione.

La tenuta in cui è ambientato il film rappresenta il Portogallo, con le sue imposizioni, le gerarchie, gli sbandamenti. La ricerca di una continua evasione che evoca il cinema di Reygadas, lo sguardo che va a La valle dell’Eden di Steinbeck (l’opera di Kazan del 1955 ne immortala solo un frammento). I cambi di generazione, i rapporti con gli antichi retaggi, le colpe dei padri che ricadono sui figli.

Parafrasando una canzone dei Nomadi, in questo film: “Il Portogallo piange disperato la sua libertà perduta” (nell’originale era il Cile dopo il colpo di Stato del 1973). La libertà di Guedes non è solo legata alla politica, ma agli elementi culturali che hanno costruito l’anima dei portoghesi. Nessuno è innocente, tutti scontano la loro condanna. Soprattutto per i crimini che non hanno commesso in prima persona.

Il regista mostra che la Storia è ciclica, è un eterno ritorno, di cui non si può conoscere ogni sfumatura, altrimenti si rischierebbe di essere sopraffatti. Quindi si torna ai versi del poeta, a quel “svelami un segreto”, al confine tra realtà e finzione. Forse a volte è meglio non sapere, suggerisce Guedes, che realizza il suo Il Gigante (solido film di George Stevens degli anni Cinquanta), rimescolando le carte e sostituendo il Texas con il Portogallo. Dove il rigore della macchina da presa ci accompagna nella sera, dove le ombre si stagliano contro il tramonto, gli addii sono silenziosi, e la natura assiste impassibile al nostro passaggio.