E alla fine arriva Obama. Cecil Gaines (Forest Whitaker, una finestra sull'Oscar) non lo serve, ha rassegnato le sue dimissioni nel 1987 nella mani di Reagan, e non è un caso: un nero non serve un altro nero, la venuta al potere di Barack è un nuovo inizio e, insieme, la fine dell'house nigger, di Cecil e tanti altri maggiordomi di colore come lui. Gli stessi che anche alla Casa Bianca dovevano rassegnarsi a una paga inferiore e zero promozioni: white power, e non ci sono suprematisti che tengano, semplicemente, non serve, non serviva.
The Butler, che riporta dietro la macchina da presa Lee Daniels dopo il successo di Precious e il deludente Paperboy, è la lunga marcia dei neri alla conquista del potere, ovvero, dell'uguaglianza: osservatorio privilegiato, appunto, la White House, dove Gaines servì dal 1957 al 1986, portando latte e caffè, tra gli altri, a John Kennedy, Richard Nixon e Reagan. Una vita a contatto con il Potere, ma senza prenderne nemmeno un pezzo: a casa la moglie Gloria (Oprah Winfrey, super) lo ama, il figlio Louis anche, ma il cuore batte per i diritti civili, da Martin Luther King alle Black Panthers, fino alle proteste per l'apartheid in Sudafrica. In mezzo, lui, Cecil, impeccabile servitore dello Stato, e non in mero senso letterale: serve il Paese, quello che in una piantagione di cotone gli aveva ammazzato il padre e mandato ai matti la madre per mano bianca.
Cecil non dimentica, ma l'acrimonia e il revanscismo non fanno per lui: tratta tutto, tutti con i guanti bianchi, perché, gli viene insegnato ancora piccolo, i neri hanno due facce, e la seconda è quella da offrire agli sguardi dei bianchi. Lui serve, l'America cambia, lui serve, l'America, infine, è divenuta per lui e per i neri un posto migliore, ma quanta fatica, quante lotti, quante violenze: gli spari sopra sono per loro, JFK e il reverendo King, ma il giubbotto antiproiettile non ce l'ha nessuno, né Cecil, né Louis. Il primo tira dritto, perché – gli dice il suo mentore – “alla Casa Bianca non si fa politica”, il secondo scende in strada, entra ed esce di prigione, prende le botte e Birmingham, finisce quasi bruciato in Alabama, ma non molla: potremmo dire, del papà è il servire il potere, del figlio servire il popolo, di entrambi – lo sanno sì e no – servire lo Stato, ma il vero problema, ci dice Daniels, sono le collisioni tra i due, ovvero le fratture all'interno del mondo nero.
Padre e figlio scazzano, sì. ma il regista studia Napolitano-Letta e lavora alla larghe intese: via gli estremismi, con le Black Panthers subito ripudiate, e uno sguardo fuori dai confini, perché la riconciliazione padre-figlio è possibile (solo) in Sudafrica.
Cast all star, da Alan Rickman a Jane Fonda (i Reagan), da John Cusack (Nixon) al maggiordomo Lenny Kravitz (un testone, spalle strette e pappagorgia: sex symbol?), The Butler ha i crismi del mèlo-biopic, un occhio al cuore, l'altro alla Storia: per citare un brand nero che ha fatto storia, il sottotitolo dovrebbe essere FUBU, ovvero, for us by us, eppure questo filmone d'impegno strappalacrime possono vestirlo tutti, anche i bianchi. Al festival di Rio, è stato accolto tra gli applausi, con tifo in sala, e la platea bianco&nera a giocare a ping-pong con lo schermo: da noi, è la domanda, The Butler saprà dire così tanto? La risposta parrebbe negativa, ma poi pensi a un'altra Cecile, e qualcosa non cambia. Yes we Kyenge?