“Un mix di popcorn movies e cinema-verità”. Definizione del regista Paul Greengrass, è Green Zone, che arriva oggi in sala con Medusa (300 copie) e porta il maresciallo Matt Damon in Iraq, sulle tracce delle famigerate armi di distruzione di massa: Cia contro Pentagono, iracheni contro iracheni, tutti contro tutti.
Titolo che indica l'area protetta del comando Usa e britannico a Baghdad, la spy-story pare la seconda parte di un dittico del dolore americano, iniziato con l'11 settembre di United 93. Ne parliamo con Grengrass, sul numero di aprile della Rivista del Cinematografo in edicola, dove trovate una lunga intervista esclusiva: qui, un breve estratto.
Greengrass, com'è questa Green Zone?
Il tentativo di sposare due versanti: da un lato, il factual filmaking di United 93; dall'altro i popcorn movies del dittico di Bourne, che inquadra la contemporanea paranoia globale.
Dopo averla bastonata con Bourne, qui rivaluti la CIA: perché?
Non esiste alcun dubbio, la Cia a quei tempi era molto ostile verso il caso intelligence costruito per le armi di distruzione di massa: l'input non venne dall'Agenzia, ma dall'interno del Pentagono. Comunque, dopo Bourne, ho voluto pareggiare il conto con un agente buono...
La tua mission a Hollywood sembra quella di combinare l'action mainstream all'indagine geopolitica indipendente: come ci riesci?
Faccio film che, in un modo o nell'altro, si impegnino a inquadrare il mondo reale, con gli strumenti migliori.
Il singolo contro il potere politico: una costante della tua filmografia?
Credo sia un ottimo espediente per esplorare quel che succede oggi, ma ora forse è giunto il momento di cambiare: basta guerra.