“Una storia che meritava di essere raccontata, mi appartiene profondamente: chierichetto professionale nella chiesa di San Giuseppe in Emilia, conobbi un cattolicesimo molto superstizioso, ed ecco questa favola contadina, con l’atavica paura del buio”. Parola di Puoi Avati, che dopo una parentesi televisiva torna al cinema con Il Signor Diavolo, prodotto dalla Duea Film con Rai Cinema – con la collaborazione di Ruggente Film – e dal 22 agosto nelle nostre sale (a oggi circa 200 schermi) con 01 Distribution.

A cinquantun anni dall’esordio Balsamus, Avati torna all’horror, ovvero al genere: “I nostri autori ombelicali rifiutano il genere, ma il nostro cinema è stato fortissimo finché non l’ha disatteso, e penso alla sfrontatezza di Sergio Leone che da Trastevere si è inventato il western. Questo copione è stato rifiutato da sei distribuzioni, che non considerano più il genere: solo commedie, per di più con la panchina corta, una squadra ristretta. Frequentare generi non è disdicevole, questo film è una forma di provocazione”.

Nel cast vecchie conoscenze del cinema di Avati, quali Lino Capolicchio, Massimo Bonetti, Alessandro Haber, Gianni Cavina e Andrea Roncato, Il Signor Diavolo è ambientato nell’autunno del 1952 nel Nord Est, dove è in corso l’istruttoria di un processo sull’omicidio di un adolescente, a furor di popolo, indemoniato: per non compromettere le prossime elezioni, un ispettore del ministero a guida democristiana, Furio Momentè (Gabriele Lo Giudice), parte per Venezia leggendo i verbali degli interrogatori del quattordicenne Carlo Mongiorgi (Filippo Franchini), reo confesso dell’assassinio del mostruoso Emilio (Lorenzo Salvatori) figlio della potente e fatale Vestry Musi (Chiara Caselli)…

Horror gotico? “Non è solo de paura, l’horror gotico, ma suppone e prevede una sacralità: nel mio immaginario c’era una dilatazione del sacro, quella figura che è il sacerdote preconciliare, che dal pulpito poggiava gli occhi su di me. Credo che la mia piccola creatività sia nata da questa paura”, confessa Avati, che ribadisce “il patto con lo spettatore: questo genere devi spaventarti”, si ri-professa autore: “Quantità di genere e quantità autoriale, quanto uno rimane autore praticando i generi?”.

Complici logistica – “Una parte di Emilia che non si è modernizzata, le Valli di Comacchio, dove si esce dal tempo” - e cast & crew – “Ho voluto richiamare Capolicchio, Cavina, Haber, Bonetti, nonché ritrovare Sergio Stivaletti agli effetti e Amedeo Tommasi alle musiche”, Avati ha voluto “richiamare con pochi fotogrammi la nostra identità esplicita: Il Signor Diavolo è un film di identità”.

Al centro, ovviamente, c’è il male: “Il diavolo è sinonimo di male, abbiamo fatto conquiste in tutti i campi ma lì ci siamo distratti. Il male sopravvive in modo efficace ed efficiente, io stesso se mi guardo allo specchio sono portatore di male, per esempio, mi sono trovato a godere di chi è scivolato. Poi, c’è il male per il male, fatto gratuitamente: di recente, l’ho subito, il disturbo mentale nelle mani di chi può nuocerti è diabolico. Il diavolo è ovunque in chiunque, una considerazione molto attuale quella del film”. Aggiunge sul diavolo Massimo Bonetti: “Io lo so dov’è, è in Rai”.

Tornato al cinema dopo essersi “illuso che si potesse fare una TV diversa, ma la TV si fonda sulla reiterazione, mentre io sono abituato a stupire con generi, racconti e cast: il cinema ha permanenza, rimane di più”, Avati ha trovato nella propria storia “il movente per l’ispettore: il Veneto era fortemente democristiano, non esisteva che un religioso finisse in aula di tribunale, e in quell'Italia lì io sono cresciuto, a casa nostra c’erano litigi doncamilleschi tra papà democristiano e nonno socialista”.

Del cast, Capolicchio rivela: “ Quando ho girato il film di Pupi, ero malato e non lo sapevo: ho visto la morte in faccia, ho pensato di non sopravvivere, invece no, domani prendo le ultime pasticche della chemio e poi è finta, sono guarito completamente. Il cinema mi ha dato moltissimo, con Pupi ho fatto nove film, una cosa pazzesca, ma il cinema è finzione, la realtà è vita e ti sottopone a prove molto dure”. Viceversa, Bonetti è a quota sei: “Ogni volta una gioia infinita, per liberarmi dalle scorie della fiction”.

La Caselli s’è impegnata a “raccontare un’ombra”, Roncato, che ha “scoperto di poter fare l’attore con Pupi, dopo 45 film da comico”, si dice “convinto che il diavolo si nascondesse nel lato B di Belen, mi son dovuto ricredere”.

Chiude Avati, illuminando sul suo progetto dantesco: “Ha finalmente trovato accoglienza a Rai Cinema, con l’attivazione per la sceneggiatura: 2021, spero bene. Han raccontato la vita di tutti, anche di Totti, di Dante non ancora: credo lo meriti”.