Una cantina piena di ninnoli, botti e carillon scordati. Al piano di sopra si festeggia il Natale. Qui sotto tre fratelli (Fabrizio Gifuni, Fabrizio Rongioni e Barbora Bobulova) si ritrovano dopo dieci anni. Nel ciarpame anche una vecchia radio. Cominciano a giocarci, si sintonizzano su una stazione abbandonata. Niente più redattori, niente più filtri: per andare in onda basta chiamare. E dire qualsiasi cosa. Un gioco che presto diventa una drammatica epifania. L'occasione per scoperchiare il baule degli antichi ricordi, ma soprattutto dei rancori, delle ferite e delle cose mai dette. Sono queste le premesse de La radio, debutto al lungometraggio di Davide Sordella. Piemontese, poco più di 30 anni, è stato allievo di Mike Leigh alla London International Film School. Aveva iniziato da documentarista con Daniele Segre. Poi tanta palestra in Sud America, dove ha girato numerosi spot per una campagna di prevenzione all'AIDS, e il ritorno in Italia per il primo film. Un esordio anomalo e coraggioso, che Sordella ha scritto, sceneggiato e deciso di ambientare tutto nella stessa cantina. 85 minuti di dramma interiore, per cui si è affidato esclusivamente all'intensità degli attori e alle note di Chopin, di Rachmaninov e di un irridente swing. Pronto già nel 2003, La radio esce ora al cinema Empire di Torino, in attesa di una più ampia distribuzione.

Una sfida a tutti gli effetti...
Diciamo che non ho cercato alibi. Anzi. Ho ridotto il lavoro all'osso e mi sono costruito una situazione che potessi tenere completamente sotto controllo. Io, gli attori e basta. Se non funziona sarà solo colpa mia, ma almeno saprò come migliorare. D'altro canto si è davvero trattato di una sfida a me stesso. La scelta di un unico ambiente, l'essenzialità delle scenografie: sono tutti limiti che mi sono autoimposto, per indurmi a cercare delle soluzioni efficaci.

Mike Leigh come maestro. Cosa ritieni di aver imparato da lui?

Molto in generale il rispetto per il lavoro e per chi lavora con te. Più in particolare, l'amore per gli attori che credo emerga anche dal film. Sono loro il cuore di tutto e, come dice lo stesso Leigh, "l'unico elemento umano di tutto il cinema".

A loro metti infatti in mano La radio. Le emozioni sono tutte nell'efficacia dei personaggi, nel loro percorso interiore.

Sapevo che il lavoro più difficile sarebbe stato questo. Con gli attori abbiamo svolto cinque settimane di preparazione prima delle riprese. Più che vere prove, direi un workshop, un laboratorio di studio e di appropriazione dei personaggi. E' stato fondamentale, li abbiamo visti crescere e prendere vita giorno dopo giorno.

Fabrizio Gifuni: perché hai pensato proprio a lui?

Mi aveva sempre convinto, sia a teatro che al cinema. Apprezzo la sua grande preparazione e anche per questo gli ho affidato il ruolo più difficile. A differenza degli altri, il suo personaggio è il più trattenuto, ma anche il più sofferto e il più umano. Quello che introietta il dolore e nasconde la sofferenza, fino allo sfogo e alla liberazione finale.