La storia raccontata in West of Sunshine si svolge nell’arco di una giornata piena di sole e vede come protagonisti un padre, un figlio e una sfavillante automobile vintage color crema. Jim è divorziato e gli viene chiesto dall’ex moglie di badare per un giorno al figlio, in vacanza da scuola. L’uomo, che di mestiere fa il corriere, è costretto a portarlo con sé a lavoro. Emerge fin da subito, tra una consegna e l’altra, che il rapporto tra i due non è così solido: in macchina si parla pochissimo e Jim non è propriamente a suo agio nel ruolo di genitore responsabile.

Ha il vizio delle scommesse, è perseguitato da un usuraio e il suo passato è segnato dal dramma dell’abbandono – non vede il proprio padre da quando era un ragazzino. Le sue scelte di vita discutibili finiscono inevitabilmente per travolgerlo: dopo aver perso i soldi che avrebbero dovuto sanare il debito, Jim deve escogitare un modo per superare l’indolenza esistenziale che lo contraddistingue, salvarsi la pelle e riconquistare l’amore di suo figlio.

Come goffi cavalieri erranti, questi due piccoli uomini percorrono fianco a fianco un vero e proprio sentiero di crescita, costellato da ostacoli e fallimenti, da condivisioni e rinunce, riscoprendo le radici più profonde delle loro comuni fragilità. Insieme impareranno a “farsi sole” e a liquefare l’oscurità vampiresca che li ha tenuti per anni confinati in un’intercapedine di paura e incomunicabilità.

Jason Raftopoulos, qui al suo primo lungometraggio, realizza un film molto saturo, riconsegnandoci attraverso immagini nitide e luminose un racconto universale di formazione che fa eco ad altre celebri storie di padri e figli viste al cinema – il regista ha dichiarato di essersi espressamente ispirato al neorealismo italiano. Un Ladri di biciclette in salsa australiana, insomma,  che forse si perde nei meandri della retorica senza riuscire a convincere fino in fondo.