Un mosaico di vite parallele, un docufilm che è diario di viaggio e al tempo stesso itinerarium mentis: la meta? Santiago di Compostela, percorso di pellegrinaggio, groviglio di sentieri che sin dal Medioevo conduce, attraverso la Francia e la Spagna settentrionale, al luogo di sepoltura, secondo la tradizione, dell’Apostolo Giacomo.

Sulla via per raggiungere questo luogo, lunga più di cinquecento miglia, ogni anno si affollano centinaia di migliaia di moderni pellegrini, a testimonianza di quanto impellente sia la necessità di recuperare una dimensione spirituale, un contatto materico con il sacro e il divino, e di quanto tale necessità passi attraverso il sudore e la fatica, metafora di una metamorfosi interiore inavvertita ma inevitabile.

E la regista statunitense Lydia B. Smith, folgorata sulla via di Damasco che oggi passa sotto il nome di Santiago di Compostela, cesella un percorso multiprospettico, forse frammentario ma a suo modo affascinante, incorniciando i suoi pellegrini tra le lande della Spagna del nord, con i suoi cieli cupi e corrucciati. Offrendo così allo sguardo dello spettatore sei declinazioni di quel bisogno ineluttabile di cambiamento e di purificazione avvertiti dall’uomo a ogni latitudine, il tono della narrazione riesce altresì a evitare, ed è impagabile, le agiografie del dolore e l’estetica lacrimevole delle tivù generaliste.

Così, se la vicenda delle pellegrine Misa, giovane danese, Sam, brasiliana, Annie, statunitense, e Tatiana, una donna francese, è sospesa tra ricerca dell’armonia, disperazione e fede, d’altra parte i due anziani canadesi, Jack e Wayne, rispettivamente un sacerdote e un vedovo, colgono l’occasione del viaggio per compiere un bilancio esistenziale al crepuscolo della vita. Armati di zaino e di stivali, il pellegrinaggio prosegue nella sua essenza più intima, quella della ricerca di uno sfavillio di bellezza: uno scorcio paesaggistico, una goccia di pioggia, un sentimento di gioia ritrovata.