La parola terra ha un sapore antico che rimanda alle origini. E' sinonimo di possedimento per il protagonista Luigi Di Santo, Fabrizio Bentivoglio, e per il regista Sergio Rubini che vi appartiene (la Puglia) sia per nascita che per lingua. Il primo se ne è allontanato fisicamente, è l'unico di quattro fratelli, che si è trasferito a Milano dove insegna, a causa di un pessimo rapporto con il padre; il secondo lo fa metaforicamente oggettivandola in un film. Ma la terra, come la famiglia, a volte unisce, altre divide: è su questo binomio di attrazione-repulsione che si muovono regista e personaggio, l'uomo e l'attore in una storia che a un certo punto si tinge di giallo, anzi di nero. Luigi e i suoi fratelli sono d'accordo nel vendere la magnifica masseria di famiglia, si oppone il fratellastro Aldo, anche lui legittimo erede. Per convincerlo, Luigi torna al paese natale. Vecchie ferite e rancori mai sopiti riemergono più vivi che mai, con tanto di omicidio di cui ognuno incolpa l'altro. Tocca proprio a Luigi, che è diventato estraneo alla terra, a farsi carico della proprietà e della famiglia, a diventarne elemento centripeto. Si sente la mano del regista in questa storia del sud, di passioni meridionali. Un ottimo Rubini che, al suo ottavo film, dirige un bel coro di attori (bravo Fabrizio Bentivoglio) e si ritaglia un ruolo sgradevole, ai limiti del grottesco.