Il Milano Film Festival ha trascorso il primo weekend della XVII edizione con una giovane promessa del cinema internazionale e una serie di visioni femminili. Steph Green ha diretto il primo lungometraggio in concorso, Run & Jump (coproduzione Irlanda/Germania, con la sceneggiatura autobiografica di Ailbhe Keogan), è stata assistente alla regia di Spike Jonze (Essere John Malkovich, 1999; Nel paese delle creature selvagge, 2009) e viene dritta dal Tribeca Film Festival, dove ha vinto nel 2008 con un corto liberamente ispirato ad un racconto di Roddy Doyle, New Boy, che l'anno successivo ha ricevuto una nomination agli Oscar.
Deve correre e saltare Vanetia (Maxine Peake) dopo l'ictus che ha colpito il marito Conor (Edward MacLiam) per ricostruire la vita di entrambi e della sua famiglia. In una splendida casa nella sconfinata campagna irlandese si trova a fare i conti con un prima e un dopo, prova a rimettere insieme i pezzi della sua esistenza sotto lo sguardo indiscreto di un estraneo, il neurospsichiatra Ted (Will Forte), ospitato per esaminare il caso clinico, e impara a vivere attorno alla figura di un marito, un padre, un complice, che ha mutato carattere e abitudini. Run & Jump non è il solito dramma familiare che vende sentimentalismi a buon mercato. Ma un drama irriverente, girato quasi interamente tra le mura domestiche, che entra nell'intimità senza indagare, commuove senza compiacersi. Sa mostrare il dolore, la perdita e la rabbia senza pudori. Bravissimi interpreti mettono in scena una ciurma un po' svitata che ritrova l'armonia perduta con un po' di sana follia, a ritmo di balli notturni a suon di britpop e passeggiate in bicicletta sotto la pioggia d'Irlanda. 
Dopo la madre titanica e inossidabile di Steph Green, un'altra madre approda al MFF. Anche lei è un'esordiente, anche se quarantenne. E' la videoartista newyorkese Shannon Plumb, moglie dei regista Derek Cianfrance (Blue Valentine, 2010; Come un tuono, 2012) che filma la sua quotidianità, i suoi figli e il marito, in una docufiction sul ruolo di madre: fare il genitore è un lavoro totalizzante, assorbe ogni energia e spesso, offusca l'altra sé, la donna e l'artista. Autoironico ed esilarante nei suoi momenti slapstick, incrocio di generi espressivi, omaggio alla potenza della cinematografia, Towheads racconta l'annullamento nell'essere madre e il tentativo di metamorfosi  nel suo corrispettivo, quel maschio che va a lavorare e la lascia sola in balia dei due ometti dai capelli biondi del titolo, per riappropriarsi della propria identità.   
A volte, invece, ci sono donne che scelgono la carriera e affidano i figli ad un tata, figura archetipica onnipresente, che spesso diventa seconda madre, come succede nel film del venticinquenne Anthony Chen Ilo Ilo, già premiato a Cannes nel 2013 con la Caméra d'Or. A Singapore, durante il crac finanziario dei paesi asiatici del 1997, una famiglia della middle class assume la giovane immigrata filippina Teresa per badare ad un irrequieto ragazzino. Dapprima conflittuale, il rapporto tra i due diventa sempre più stretto, tanto che la tata sostituisce la figura materna, mentre il nucleo familiare subisce un lento sgretolamento: il padre perde il lavoro e comincia a mentire alla moglie, bulimica affettiva, maniaca del controllo e attaccata alla formalità dei valori borghesi dell'apparenza e del guadagno. Un storia universale - ricorda in alcuni aspetti l'americano The Help - toccante e coinvolgente che rievoca i fantasmi del collasso economico senza cercare paragoni con l'attualità, e mette in evidenza la vacuità di certi valori familiari e l'ipocrisia di certi giudizi sull'immigrazione.