Quattro anni dopo Nobi, Shinya Tsukamoto torna in concorso a Venezia con un altro film in costume. Abbandonato il terreno paludoso della Seconda Guerra Mondiale, va ancora più indietro nel tempo, alla metà del XIX secolo. Quando in Giappone, dopo 250 anni di pace, i guerrieri samurai non se la passavano benissimo. Impoveriti, molti di loro abbandonarono i propri padroni per diventare dei ronin erranti.

Con il suo solito, inconfondibile stile, con quella macchina a mano impazzita e l'ipertrofia di un suono che amplifica fino al rimbombo ogni angolo d'immagine, Tsukamoto (come sempre anche autore dello script, della fotografia e del montaggio e con il fido Chu Ishikawa alle musiche) si sofferma sul dramma di un giovane samurai, Mokunoshin (Sosuke Ikematsu), che sopravvive aiutando dei contadini in un villaggio fuori dalla città di Edo (che solamente anni dopo divenne Tokyo).

Per non perdere l'abilità con la spada, il ragazzo si allena ogni giorno con il figlio della famiglia che lo ospita, sotto lo sguardo di disapprovazione della sorella di quest'ultimo, Yu (Yu Aoi). Tra la ragazza e Mokunoshin, seppur non dichiarata, c'è una forte attrazione.

Dotato di una notevole tecnica, Tsuzuki non ha però mai ucciso nessuno. Sarà l'incontro con un samurai più anziano, Sawamura (lo stesso Tsukamoto), in cerca di talenti per formare un gruppo di guerrieri da condurre a Kyoto per combattere la guerra civile, a far esplodere questo conflitto interiore.

Abbandonate apparentemente le ossessioni corpo-macchina che ne contraddistinguevano il primo cinema, metropolitano e postmoderno, Tsukamoto prosegue questo viaggio nel passato dell'uomo quasi a voler rintracciare i prodromi delle contraddizioni già esplorate nella saga di Tetsuo (l'uomo-macchina), fuggendo però dalle fusioni metalliche industriali e urbane: il ferro stavolta è la spada, "protesi" che a differenza delle armi da fuoco riconduce direttamente all'essenza dell'uomo.

 

Metafora dell'impotenza (non a caso Tsukamoto insiste molto con quei frenetici close-up sull'impugnatura nevrotica di Mokunoshin) che diventa a sua volta riflessione sulla natura e sull'ambiguità umana: anche per questo, Uccidere è la seconda parte di un dittico ideale, sorta di ripensamento filosofico successivo al baratro dell'infernale Nobi. Lì era il macello della carne, qui la disabitudine allo scontro, l'impossibilità a reagire concretamente di fronte alle minacce reali. Che però, alla lunga, finiranno per mutarci.

Ancora una volta superbo nel saper maneggiare l'apparato ipertrofico e iperrealista dentro al caos di combattimenti tra i boschi o dentro il chiuso di qualche capanna, Tsukamoto risolve l'intera questione in soli 80 minuti.

 

E in una Mostra dove la durata media dei film in concorso supera abbondantemente le due ore, è un altro straordinario segnale a suo favore.