A parte alcune digressioni, la trama di Wuthering Heights di Andrea Arnold, in concorso alla 68ma Mostra di Venezia, è piuttosto fedele al romanzo di Emily Bronte. Scritto nel 1847 e diventato non solo uno dei capolavori più letti della storia  della letteratura, ma anche fonte di numerosi adattamenti cinematografici, primo tra tutti La voce nella tempesta di William Wyler, del 1939, con Laurence Olivier. Il titolo evocativo, Cime tempestose, racchiude una delle storie d'amore più tragiche e crudeli mai raccontate, a cui persino Luis Bunuel non aveva resistito (Abismos de Pasion, '54).
A distanza di decenni e di diversi rifacimenti televisivi, la Arnold, premio della Giuria al festival di Cannes nel 2009 con Fish Tank, coraggiosamente tenta l'operazione impossibile: una trasposizione più feroce rispetto alle altre, e quindi in maggiore sintonia con lo spirito del romanzo.
Nel narrare la misera vita di un orfano, che viene raccolto per la strada da un agricoltore dello Yorkshire e portato nella sua casa, e maltrattato da tutti fino allo sfinimento, anche dalla donna amata, sceglie la strada sbagliata fin dall'inizio: l'eroe appassionato e brutale, l'Heathcliff diventato Laurence Olivier nell'immaginario collettivo, qui è per ragioni incomprensibili di colore nero.
Non basta, l'ossessione divorante che lega Heathcliff e Catherine oltre ogni vincolo e ostacolo terreno, viene tradotta in paesaggi maestosi, ripetuti infinitamente, e in violenza gratuita  su oggetti, animali e persone, senza sortire mai l'effetto desiderato.
Nonostante le intenzioni (l'approccio visivo), e l'indubbia conoscenza del mestiere, il risultato è fin troppo deludente. La Arnold non è Al Pacino e la sua ossessione - Heathcliff - non ha mai la forza espressiva della meravigliosa Salome di Jessica Chastain.