Nove ierofanie, nove manifestazioni del Sacro secondo la definizione adoperata, illo tempore, dal grande storico delle religioni Mircea Eliade.
Dinanzi a un'opera come Words with Gods, Fuori Concorso a Venezia 71, ambiziosa e sfaccettata, a tratti lambiccata, si rimane perplessi: da un lato, la profondità del tema affrontato farebbe tremare i polsi a chiunque, dall'altro lato la quantità di stimoli, di suggestioni visive e simboliche senza dimenticare, a conti fatti, la qualità finale dei singoli risultati, intriga lo spettatore portandolo a interrogarsi sul significato che un lavoro di questo genere può assumere al giorno d'oggi.
Il progetto nasce da un'idea di Guillermo Arriaga, sceneggiatore di fiducia di Alejandro González Iñárritu, che già in opere come Babel ci aveva dato prova della sua visione multiprospettica e magniloquente della realtà. Qui, nove celebri firme del cinema internazionale sono state invitate a scrivere e a dirigere altrettanti episodi che indagassero la natura del rapporto fra l'uomo e il Sacro, quel Totalmente Altro che le credenze religiose, in ogni parte del globo, hanno da sempre declinato secondo vie tutte differenti fra loro e tutte, inevitabilmente, fra loro interconnesse. Una lunga e articolata panoramica che comprende spiritualità aborigena (per la regia di Warwik Thorton), Umbanda (Héctor Babenco), Induismo (Mira Nair), Buddhismo (Hideo Nakata), Ebraismo (Amos Gitai), Cattolicesimo (Álex de la Iglesia), Cristianesimo ortodosso (Emir Kusturica), Islam (Bahman Gobadhi) e, infine, l'ateismo (Guillermo Arriaga).
Il pot-pourri, come si evince dai nomi, è ardito e non convince sempre. Il linguaggio raggiunge punte di grandissima suggestione, e non è certamente un caso, là dove a imporsi sono le immagini e la natura, come ad esempio nello splendido episodio iniziale di Thornton, narrazione di un parto in mezzo alla solitudine sconfinata del deserto australiano gravido di pulsazioni primordiali.
L'incontro con il Sacro, d'altra parte, è sempre una questione legata all'intimo di ciascuno di noi. Proprio per questo motivo, sono meno convincenti l'esperimento grottesco di Mira Nair, un ritaglio della peggior Bollywood commerciale, quello di Hideo Nakata, di certo più a suo agio con l'horror che con gli apologhi religiosi, e quello, seppure visivamente accattivante, di Amos Gitai: un unico piano-sequenza in cui, su di uno sfondo di guerriglia urbana, alcuni personaggi recitano con toni apocalittici il Libro profetico di Amos.
A chiudere il sipario, l'episodio di Guillermo Arriaga, dedicato all'ateismo, tenta di coniugare sentimento della natura e analisi psicologica, ma finisce con l'imporsi per l'immaginifica sequenza della pioggia di sangue (divino?) che, se a taluni sembrerà tremendamente kitsch, non può del resto non trovare una sua ragion d'essere in quell'immaginario di un continente che è stato in grado di far piovere fiori su Macondo.