È come se vivesse in una quarantena perenne, la protagonista di Vetro, l’opera prima di Domenico Croce (già David di Donatello per il cortometraggio Anne, diretto con Stefano Malchiodi) presentata al Bif&st. Probabilmente la storia arriva da lontano, ma la referenza con il nostro tempo è evidente – le riprese sono avvenute in tempo pandemico – e il film avverte quei contraccolpi dell’attualità che già caratterizzavano la fruizione di altre opere italiane come Shadows e Buio.

Senza lasciarsi condizionare dalle corrispondenze volontarie o meno tra finzione e realtà, Vetro prova a scandagliare la psicologia di un’adolescente il cui mondo si limita al perimetro della sua stanza. Pensando a Room, altra angoscia claustrofobica, potremmo dire che la protagonista si colloca a metà tra la mamma che conosceva il mondo prima della reclusione e il bambino del tutto ignaro di quel che accade fuori dalla gabbia.

Non è importante sapere se Lei, la ragazza che rinuncia all’onomastica per farsi simbolo, abbia avuto qualche esperienza nella socialità (Carolina Sala); ci interessa osservarla alle prese con le conseguenze di una scoperta che irrompe nel suo quotidiano rigido e alienante. Si convince, infatti, che nel palazzo di fronte una donna sia tenuta segregata: come può salvarla essendo lei stessa prigioniera?

credits: Claudia Sicuranza
credits: Claudia Sicuranza
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C’è il vetro della finestra che la separa dalla verità o da quella che appare come tale; e c’è lo schermo del pc, a sua volta finestra su un pezzo di mondo, a separarla da Lui (stesso discorso di prima), un ragazzo più grande, il complice con cui condividere dubbi e sospetti. E con il quale iniziare una relazione fatta di chat e videochiamate (Marouane Zotti, visto in May I Destroy You).

Vetro guarda a modelli sovranazionali, cerca di mettere la ricerca stilistica al servizio del discorso allegorico, lavora su un’immagine filtrata da uno sguardo allucinato per suggerire un orizzonte dove realtà e paranoia si confondono (fotografia di Cristiano Di Nicola, montaggio di Natalie Cristiani).

Croce ha l’ambizione di smarcarsi da schemi facili e porta all’estremo il modello del cinema piccolo borghese italiano (da “due camere e cucina” a “una camera”), ma a questo film volenteroso e fragile manca una vera forza in grado di connettersi con il mondo interiore della protagonista e una tenuta narrativa che sappia mantenere alta la tensione di un racconto che resta dirompente più nelle intenzioni che negli esiti.