Poeta, scrittore, pittore, compositore, regista, ma anche direttore della fotografia, montatore, scenografo. Se non autore totale, Lech Majewski è certamente totalizzante. E lo dimostra anche Valley of the Gods, ultima espressione della sua poetica visionaria già rivelatasi nel trittico composto da Il giardino delle delizie, I colori della passione e Onirica, ispirati rispettivamente a Bosh, Bruegel e Dante.

Non difetta d’ambizione, il polacco Majewksi, che continua a esplorare il crinale tra cinema d’élite e videoarte tessendo ancora una volta un ricco catalogo di immagini estetizzanti, suddiviso in un prologo e dieci capitoli e tenuto insieme da una temeraria quanto flebile tessitura narrativa. Lo sguardo sembra rivolgersi a certe derive dell’ultimo Terrence Malick, ma tiene conto anche dell’orizzonte manierato dell’estetica pubblicitaria di lusso, un po’ per esaltare le bellezze riprese e un po’ per piegare quel funzionamento a una sublimazione che spesso non pare praticabile in quel campo.

Al centro del film, uno scrittore americano (il redivivo Josh Hartnett) che, fresco di traumatico divorzio, si reca nell’iconico Monument Valley Tribal con l’obiettivo di stendere il romanzo da sempre vaneggiato: la biografia di Wes Tauros, che bontà sua è l’uomo più ricco del mondo.

Pur essendo terra mitica e mitizzata, riserva tuttora abitata e gestita dai nativi americani che la considerano sacra, quella zona sta per essere violata dallo stesso Tauros (John Malkovich, solito supremo gigione), la cui società ha deciso di scavare per estrarre uranio anche nella Valle degli Dei, nonostante l’antica leggenda Navajo voglia che tra le rocce della Valle siano rinchiusi gli spiriti di antiche divinità. Naturalmente lo scrittore riuscirà a incontrare il magnate, oggetto del suo romanzo, nella dimora in cui è assistito da un fantasmatico maggiordomo interpretato da Keir Dullea (già protagonista di 2001: Odissea nello spazio).

Se non fosse così magniloquente nel mettere in scena questo dramma sci-fi, Valley of the Gods potrebbe giocare sul suo apparire sbalestrato e bizzarro, contando così sulla simpatia dovuta a quegli ardimentosi che si avventurano nei territori più impervi sfidando norme e convenzioni. È indiscutibile che Majewski porti avanti una sua idea di cinema visionario, coltissimo e onirico incardinata su temi quali l’attrazione perfino erotica nei confronti di una natura misteriosa e inaccessibile a chi non ci vive in simbiosi, la celebrazione dell’arte classica così sconvolgente da produrre stordimento emotivo, la tensione spirituale che attraversa la magia intesa come energia oscura.

A Majewski dobbiamo dunque l’onore delle armi per l’autonomia intellettuale con la quale rivendica il diritto all’arcano nell’epoca didascalica. E allo stesso modo ci interessa l’adesione al punto di vista dei Navajo anche a rischio di sconfinare nel grottesco (già di culto la scena del rapporto sessuale con la roccia). Tuttavia, al netto di tutto, Valley of the Gods si muove scomposto nei contorni indefiniti del pasticcio presentandosi non solo come una opulenta e a tratti estenuante ostentazione di immagini patinate ma anche l’espressione di un cinema d’autore così respingente e confusionario, incapace di aprirsi alla curiosità di uno spettatore ben disposto.