Dunque, Fenoglio. Autore ostico da comprendere, immaginate da tradurre, non gettonatissimo tra gli sceneggiatori di cinema.

Un’unica sola onesta trasposizione, quella di Guido Chiesa, Il partigiano Johnny, 2000. Autore maiuscolo della letteratura italiana, per quella reticenza al realismo come dogma e alla memorialistica resistenziale per ideale, in nome di una disillusione umana più alta e profonda della vicenda italiana.

Con Fenoglio siamo già nell’allegoria della Storia. Siamo nel campo di gioco dei Taviani. Un orizzonte che ricomprende il realismo nel teatrale, più sconnesso che mitico stavolta, sempre e comunque al di là della fanghiglia ideologica.

Una questione privata conteneva sulla carta l’indole e lo sbocco dell’opera dei Taviani, la catastrofe storica come punto di partenza per la ricerca d’assoluti nella condizione umana. E se il romanzo è tutto un precipitare di situazioni, interiori e storiche, e dei principi implicati, nell’amara coscienza che non c’è, né mai potrà esserci, romanticismo nella guerra, il film dei Taviani, meno coinvolto (ma anche meno preciso), indaga il contenuto della resistenza fuori dalle circostanze e dal loro retaggio ideologico, in una prospettiva insieme idealistica e attuale.

L’avventura di Milton, un Luca Marinelli più allucinato che intenso, è l’eterna avventura umana, in uno scenario fuori dallo Spazio (i Taviani utilizzano le Langhe originarie del romanzo in funzione chiaramente allegorica) e dal Tempo (Memoria, Sogno e Presente si alternano senza soluzione di continuità lungo lo stesso asse cronologico). La disperazione della purezza perduta ma anche l’occasione del pragmatismo. Resistere oltre il concupire di ideali (l’Amore, l’Amicizia, la Lealtà) che annebbiano il cuore e l’intelletto, per ritrovare sufficiente presenza di spirito che il momento richiede. Riconoscersi uomini d’azione prima che di lettere.

Come dire, lasciamo le questioni private agli scrittori. Il pubblico chiama, il dover essere incombe. Ah, che audaci questi Taviani…