I bambini sul grande schermo stregano la platea con il loro presunto candore, quasi che la cinepresa voglia leggere nello sguardo di chi si affaccia sul mondo tutto quello che gli accadrà da grande, avendone nello stesso tempo paura e tenerezza. Nel cinema francese, forse questo sentimento è nato nel lontano 1933, con l’imprescindibile Zéro de conduite di Jean Vigo. La storia di quattro ragazzini alla ricerca della libertà avrebbe ispirato, qualche decennio dopo, François Truffaut e il suo I quattrocento colpi, tradotto letteralmente dal titolo originale rendendolo meno chiaro nella nostra lingua, che avrebbe dovuto intitolarlo “di tutti i colori” o qualcosa del genere.

Le avventure di Antoine Doinel sono diventate un inno all’infanzia persa e ritrovata. Tutti abbiamo versato qualche lacrima quando nel finale Antoine raggiunge il mare, e anche in Un sacchetto di biglie la citazione non poteva mancare. A un certo punto il piccolo protagonista vede per la prima volta quella distesa azzurra dall’alto di un promontorio e, per un attimo, anche noi torniamo indietro nel tempo.

Il film inizia con il dettaglio dell’avantreno di un’automobile d’epoca. Poi un movimento verso destra svela una strada deserta, un dolly abbraccia l’intera via: le bandiere francesi attaccate alle finestre non sventolano ancora, anche se la guerra è finita. Il ricordo dell’invasione, dell’Olocausto è troppo bruciante per festeggiare. Un flashback ci riporta nel pieno del conflitto, e la macchina da presa segue le vicissitudini di una famiglia ebrea, gli Joffo, barbieri che vivono in pace fino all’arrivo dei nazisti. La stella a sei punte li rende reietti, braccati dalla follia di Hitler e della polizia segreta. I due fratelli più piccoli scappano attraverso la Francia sognando di potersi riunire, un giorno, con i loro genitori.

Un sacchetto di biglie è tratto dall’autobiografia di Joseph Joffo, pubblicata nel 1973. Due anni dopo Jacques Doillon ha diretto la prima versione per il cinema, e oggi Christian Duguay torna a raccontare la tragedia di un’infanzia rubata dalla violenza razzista del Reich. Mentre i protagonisti si spostano per la Francia, tornano alla mente le pagine forti e drammatiche di Irène Némirovsky e del suo Suite francese. In fuga dall’invasore, per un attimo riecheggia il sentimento di solidarietà che unisce i vinti, terrorizzati all’idea di perdere tutto ciò che gli è più caro.

Duguay mantiene l’anima pedagogica del romanzo, ma esaspera i momenti di più facile commozione, spalma la musica su ogni sequenza e illumina gli ambienti come se fossero una cartolina. A non cambiare, è lo spirito del libro, le biglie come metafora di un’esistenza che rischia di rotolare via. L’unica speranza è centrare il bersaglio, la pila di palline che permette di tenere per sé anche quelle degli altri.

 

Non manca un richiamo a Schindler’s List e alla colonna sonora di John Williams, quando la madre suona il violino. Un film un po’ prevedibile, ma la sua materia, nonostante tutto, ci tocca il cuore.