E' il numero 39 questo titolo firmato da Pupi Avati a partire dall'esordio con Balsamus nel 1968. In Un ragazzo d'oro torna in primo piano, in modo diretto e incisivo, uno dei temi che più hanno coinvolto negli anni il regista bolognese: il rapporto padre/figlio. La vicenda prende il via a Milano, dove il giovane Davide Bias lavora in un'agenzia di pubblicità e sogna, senza fortuna, di fare lo scrittore. Da tempo ha rotto i rapporti con il padre Michele, prolifico sceneggiatore di film di serie B. Quando improvvisamente arriva la notizia della morte dell'uomo in un incidente d'auto, Davide torna a Roma e, al funerale, viene avvicinato da Ludovica, un'americana decisa a pubblicare un libro che, secondo lei, Michele stava scrivendo e di cui si sono perse le tracce. Da questo momento per Davide tutto cambia. Avati conferma che la figura del padre (quello vero è morto quando lui aveva 12 anni) gli si è proposta come sempre più necessaria fino a  “costruire oggi – dice - uno dei figli più belli che si possano immaginare, uno che dona la propria salute mentale per il ricordo del padre”.

Il copione parte quindi da situazioni di forte contrasto per muoversi nella direzione di stemperarne le conseguenze. La musa di Avati, come di consueto, tende ad inclinare sul versante del perdono, della riconciliazione, della comprensione. Il piccolo/grande mondo avatiano a poco a poco emerge come in passato: un cinema quasi mai urlato mai sguaiato. Magari  sul versante opposto ci sono una debolezza psicologica dei protagonisti, e la fragilità di una scrittura tanto ordinata e pulita quanto mille miglia lontana da rischi e provocazioni visive. Nei risvolti di una fiaba che non riesce a fare i conti con la realtà, si muovono a corrente alternata gli attori: Riccardo Scamarcio (un compassato Davide), Giovanna Ralli (l'elegante mamma di lui) e, soprattutto Sharon Stone, che nel ruolo di Ludovica sembra un'americana a  Roma alquanto spaesata e estranea.