L'infanzia, la crescita, il cinema. Sulle orme dei grandi romanzi di formazione, Giuseppe Papasso conquista con un'opera prima spontanea e pulita. Una fiaba moderna che penetra sottopelle: come lo sguardo di un bambino. Siamo nel 1964 in una Basilicata estiva, resa ancor più calda - addirittura torrida - da una fotografia intensa e sanguigna. A dodici anni, Salvatore finisce in riformatorio a causa dell'amore viscerale che nutre per i film. Una passione che coltiva nonostante i divieti del padre (Pascal Zullino) - un comunista che sogna la rivoluzione - e con la rassegnata complicità di una madre d'altri tempi (Maria Grazia Cucinotta). A fare da cornice alle sue (dis)avventure, un ipertesto narrativo in cui si intersecano i funerali di Togliatti e la fioritura delle sale parrocchiali, La dolce vita di Fellini e il Concilio Ecumenico.
Tutto ruota attorno a un protagonista d'eccezione: il giovanissimo Matteo Basso, che presta allo spettatore i suoi occhi magnetici, posati con innocenza sul mondo. Come solo nelle favole, gli eventi si susseguono leggeri, scivolando con grazia sulle logiche dell'intreccio e sulle evoluzioni interiori dei personaggi. Mentre una lucida direzione d'attori e una regia equilibrata giocano d'astuzia con i modelli del passato. Dalla campagna lucana rubata al Salvatores di Io non ho paura, al parroco del paese (Ernesto Mahieux) che strizza l'occhio al Don Camillo di Guareschi; da I 400 colpi di Truffaut a Nuovo cinema Paradiso di Tornatore: le citazioni si mescolano fra loro dando vita a un'atmosfera dal sapore antico, che guarda indietro con un po' di sana nostalgia.
Sincero e delicato, Un giorno della vita è un film piccolo e indipendente, con una poetica ben precisa. E' un tributo alla necessità sociologica della visione. Un omaggio al cinema come luogo d'incontro di punti di vista opposti. Quelli di un padre e di un figlio, che - solo nel buio di una sala - riescono a trovare uno spiraglio nell'incomunicabilità che li separa.