Chissà se in un futuro si spera prossimo si riuscirà a realizzare una commedia in Italia che sia davvero cinematografica, che non guardi a modi e stili puramente televisivi e cerchi una via anche visiva alla risata? Perché se la serie Smetto quando voglio è l’eccezione, Come un gatto in tangenziale (il nuovo film diretto da Riccardo Milani) è la regola.

A partire dal meccanismo narrativo: lui è un consulente del Parlamento europeo, borghese e perbene, impegnato nella riqualificazione delle periferie; lei è una sottoproletaria che vive nell’estrema periferia romana e vive con due sorelle cleptomani e un marito in carcere. Le loro vite si scontrano quando i rispettivi figli tredicenni cominciano a frequentarsi. I due opposti, scelti ai lati estremi della scala sociale senza possibili sfumature nel mezzo (la classe media davvero non esiste più se non la racconta nemmeno il cinema?), che si confrontano con le loro contraddizioni. Soprattutto lui, Antonio Albanese, che come il censore di Alberto Sordi ne Il moralista si trova a negare nella vita reale i propri ideali professionali.

C’è la periferia romana che nel cinema contemporaneo non manca fin dalla commedia di Bruno Nessuno mi può giudicare, ci sono le battute e le situazioni buffe sui diversi contesti culturali, ci sono il qualunquismo, l’anti-politica e il cosiddetto “gentismo” accolti in maniera vagamente acritica (come già Milani fece in Benvenuto Presidente), ma ciò che rende Come un gatto in tangenziale una commedia sterile - al di là del suo onesto e diligente professionismo - è proprio la sua forma innocua, anodina, forgiata sui tempi e i ritmi televisivi, in cui la battuta si porta più facilmente se con la parolaccia, in cui si rincorrono i luoghi comuni solo per il sorriso, in cui non si costruisce mai la risata attraverso l’immagine o il montaggio, la gag, ma con la battuta o la situazione, come una sitcom seppure di lusso.

Albanese e Paola Cortellesi sono perfettamente a loro agio in personaggi su di loro tagliati, non ci sono sbavature formali e rispetto agli umori bassi che il film racconta tutto resta sempre più “medio”: in questo senso, il film di Milani trasuda lo stesso senso di colpa borghese (tranne in un breve, sacrosanto sfogo del personaggio di Albanese) che vorrebbe stigmatizzare, mostra la voglia di assumere punti di vista altrui rinnegando la sensatezza dei propri. È un modo che appare un po’ ipocrita, soprattutto per la patina visiva che cerca di coprirlo: non così distante da un film più facile da odiare come Fortunata di Castellitto.