André (Christian Clavier) e Laurence (Catherine Frot) sono una coppia borghese di mezza età che vive di routine e rispettabilità: la spesa del finesettimana, la casa impeccabilmente arredata con piscina, niente perdite di tempo né imprevisti, grazie.

Quando Patrick (Sébastien Thiery), un uomo sulla quarantina, piomba nella loro vita pare quasi un’invasione aliena, tanto più che il giovane sembra parlare una lingua astrusa e inizialmente le sue intenzioni appaiono impenetrabili. Il tornado si abbatte sui due quando si scopre che Patrick è convinto di essere il loro figlio e che le sue difficoltà nel comunicare sono dovute alla sua sordità: routine frantumata, nuova vita forzata, che piaccia (a Laurence) o meno (ad André).

Se, come da cliché, il marito vorrebbe istantaneamente voltare pagina e liquidare l’intruso come l’impostore che crede che sia, la moglie accoglie prontamente il nuovo arrivato, pazzamente felice di quest’impossibile chance di scoprirsi per la prima volta “mamma” a sessant’anni. L’eccitazione di una nuova vita dà il largo a pensieri al di là di ogni ragionevolezza (“magari è nato così tanto tempo fa che nemmeno ce lo ricordiamo…”), sospettosi tuffi nel passato, illusioni e disillusioni, nonché a una “nuora” (cieca) e a un pastore tedesco (veramente tedesco).

Con Un figlio all’improvviso Sébastien Thiery porta al cinema (affiancato nella regia da Vincent Lobelle) la sua pièce teatrale Momo, in cui egli stesso interpreta, come nel film, il tenero Patrick. Come coprotagonisti sceglie i comicamente credibili Clavier e Frot nei panni dei “genitori”, sorprendentemente morbida lei e nevroticamente esasperato lui, e Pascale Arbillot a interpretare (con delicata ironia) la sua dolce metà.

 

Dopo il successo riscosso in teatro, Thiery punta su una commedia che offre qualche spunto di riflessione e non ha paura di ridere delle situazioni sopra le righe generate dal rapporto con l’handicap, ma si affida fin troppo a gag più scontate che scorrette.

La disabilità infatti non è più destabilizzante dell’arrivo di un figlio sconosciuto, semmai è proprio la vulnerabilità di Patrick ciò che rende plausibile lo svolgimento della vicenda in tutta la sua assurdità.

Se nel corso del film ci è concesso dubitare della sincerità e del passato dei personaggi, la risoluzione è fin troppo semplicistica e banalizza, nella durata di un sospiro di sollievo, quella che avrebbe potuto essere una più incisiva storia di maternità come sinonimo di umanità: accoglienza indiscriminata dei bisognosi e dei “diversi”, e al diavolo le affinità genetiche.