Ve lo ricordate Fred Rogers? Pastore protestante e mattatore del programma televisivo Mister Roger’s Neighborhood, rivolto ai più piccoli. Sapeva cantare, far “parlare” i pupazzi, era un punto di riferimento per le famiglie americane. Fu un successo, con novecento puntate trasmesse dal 1968 al 2001. La sigla era quasi un inno nazionale: Rogers entrava in casa intonando Won’t You Be my Neighboorhood? (Non vorresti essere il mio vicino?), si cambiava le scarpe, indossava il cardigan e dava il via allo show.

Un amico straordinario inizia allo stesso modo, giocando con i toni della favola, immergendoci in una dimensione alternativa. Prende vita una struttura a incastri, quasi onirica. La realtà si fonde con la finzione dello schermo. Il mondo è creato con un’estetica da cartone animato, mentre al suo interno deflagrano i sentimenti: il delicato rapporto con i genitori, la difficoltà di essere padre. È un film di porte aperte e chiuse. Rogers le utilizza per introdurre nuovi personaggi, per rendere l’America un luogo plasmato dalla sua messa in scena. È se stesso in ogni situazione, non recita mai, è l’emblema della coerenza.

 

Il demiurgo è Tom Hanks, perfetto nell’incarnare le movenze, la voce, di un intrattenitore che ha fatto la storia della tv d’oltreoceano. Sembra l’immagine speculare di un’altra interpretazione del grande attore: il Walt Disney di Saving Mr. Banks, in un universo dove non c’è più differenza tra chi sta davanti e dietro la macchina da presa.

Come in Copia originale, sempre diretto dalla regista Marielle Heller, il cinema è il mezzo per riflettere sul confine tra verità e menzogna. Melissa McCarthy falsificava le lettere dei divi dello spettacolo, per poi rivenderle a facoltosi collezionisti. Non a caso il titolo originale era Can You Ever Forgive Me? (Mi potrai mai perdonare?). Qui invece la risposta arriva con i buoni sentimenti che muovono Rogers, pilastro, punto di riferimento degli spettatori. È lui a sorreggere il protagonista Lloyd Vogel, reporter di Esquire sospeso fra responsabilità e traumi, incaricato dal direttore di realizzare un articolo sul luminare della tv per nuove generazioni. Storia vera, che finì addirittura sulla copertina della rivista.

 

Ancora una volta la carta stampata, le parole trascritte. Heller utilizza il video, il cambio di formato, per raccontare quasi con nostalgia un passato dove (forse) si era meno disincantati. Era il 1998, prima dell’11 settembre (le Torri Gemelle qui appaiono luminose), prima del cortocircuito social che Bret Easton Ellis ha trasformato in romanzo con Bianco.

Heller conosce le regole del dramma famigliare, sa come dirigere la cronaca di un’amicizia non comune. Dipinge le illusioni e i desideri con dialoghi delicati, dove Rogers può anche sembrare un alieno, sempre compassato, mai fuori controllo. Ma infine le luci del set si spengono, la scaletta giunge al termine, e restano le inquietudini di tutti i giorni, le note di un pianoforte che risuonano in una stanza vuota.