L'avvio è crudo, promettente. Un rapido amplesso omosessuale tra le dune di Capocotta sul litorale romano. Poi il film vira verso il più classico andamento da commedia, riemergendo solo verso la conclusione ad una forma meno vieta.
Un altro pianeta è l'esordio alla regia di Stefano Tummolini, traduttore, autore per il cinema, la televisione, la narrativa. Il film, presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 65, è stato girato in un paio settimane con un budget da reportage vacanziero; poi qualcuno l'ha ritenuto degno d'essere supportato, e così è arrivata una post produzione non improvvisata e la stampa finale in 35mm per la proiezione in sala.
Se Tummolini può dirsi soddisfatto è prima di tutto in relazione alla qualità coloristica e luministica dell'immagine che il suo lungometraggio sfoggia sul grande schermo (anche se non è da escludere che l'immagine bruciata e i toni caldi di alcuni punti del film siano involontari accidenti): visti i risultati di altre ben più pingui produzioni nostrane, riuscire in un così fondamentale comparto non è davvero cosa da poco.
Ma dove Tummolini avrebbe dovuto più facilmente dimostrare talento e senso della misura - la sceneggiatura -, il film cede vistosamente e delude: al dramma teso si sostituisce la commediaccia, la farsa da spiaggia, i dialoghi si fanno grevi, meccanici, le battute telefonate, la concezione delle azioni poco originale.
Salvatore ondeggia tra il desiderio di conquistare il più giovane e delicato Cristiano e la repulsa per la sua mentalità troppo libertina, il fastidio per la scarsa intelligenza delle conversazione della sua compagnia, la necessità di evitare delusioni. Il ritmo sale e scende, come nella migliore scuola italiana, e il racconto si stende sull'asse cronologico d'un giorno intero, dall'alba al tramonto. In prossimità della conclusione, la svolta attesa: l'insicura, fragile timida Daniela, sieropositiva contagiata dall'ex fidanzato, si ritrova sola con Salvatore, fin dall'inizio guardato e cercato con esplicito interesse. I due si parlano e si ascoltano, ridono, si guardano ciascuno accogliendo l'umanità dell'altro. Poi si ritrovano troppo vicini per lasciarsi andare, sancendo con la loro fremente unione la fine del film.
Un finale che rialza la forza retorica del lavoro di Tummolini, ma che d'altra parte suona come facile epilogo ad un altrettanto facile racconto, giocato tutto di rimbalzo sulla superficie del cliché.