Il "triage" è una procedura di classificazione dei pazienti in pronto soccorso. A ciascun infermo viene assegnato un colore in base all'entità dell'infortunio, per poter stabilire una priorità nelle cure. Negli ospedali approntati in zone belliche - dove manca il personale e non di rado anche i farmaci - questo sistema può assumere contorni paradossali: i pazienti in "codice rosso" e senza alcuna possibilità di guarigione vengono finiti dal medico di turno con un bel proiettile in fronte. E' proprio quello che accade ai poveri guerriglieri curdi nel film che ha aperto ufficialmente il quarto Festival di Roma. Il problema è che Triage di Danis Tanovic regala altre brutture non contemplate dalla guerra e tanto meno dal buon cinema. Tratta dall'omonimo romanzo di Scott Anderson e ambientata alla fine degli anni '80, è la storia di due reporter britannici, Mark (Colin Farrell) e David (Jamie Sives), che partono alla volta del Kurdistan dove si consuma l'ennesima faida mediorientale. Mentre pashmerga e iracheni si ammazzano con brio, i due fotografi - fraterni e diversissimi tra loro (Mark è un vero squalo, David ha un minimo di coscienza) - cercano lo scoop accompagnati da un dottore autoctono che spara ai suoi pazienti e distilla pillole di saggezza. Alla fine, dei due reporter solo Mark - ovvero il più fico, Colin Farrell - tornerà a casa. Ma la sua personale guerra interiore non è ancora terminata. Turbato da ciò che ha visto, andrà in analisi curato da un vecchio strizzacervelli dei fascisti spagnoli (Christopher Lee). Letteralemente scollato nella struttura drammaturgica, tra una prima parte "De bello curdo" e una seconda da psicodramma, il nuovo Tanovic guarda al vecchio - ovvero al suo successo internazionale, No Man's Land - e finisce strabico: parte come una riflessione sulla responsabilità dei media di fronte alla guerra per terminare sulla riabilitazione di un uomo che ha abbandonato un amico al suo atroce destino. Qualcosa non torna, eccetto tutto l'abc sul tema di cui il regista bosniaco non tralascia nulla - l'orrore delle mutilazioni che diventano mutilazioni dell'animo umano, l'obiettivo fotografico che dovrebbe "documentare" e serve invece a dimenticare, la psicosi da reduce, la cura dell'interiorità per ristabilire la corporeità, etc... - e non risparmia nessuno: occidentali e non, fascisti o democratici, in fondo ognuno è colpevole perché nessuno lo sia. Un'ambiguità questa che, più del copione imbarazzante e dei suoi imbarazzati interpreti, non gli si può proprio perdonare.