Il tentativo di affrancarsi dalla comicità volgarissima e demenziale di Una notte da leoni è apprezzabile ma sfortunatamente poco riuscito. Imboccando con Trafficanti la strada della commedia semiseria, Todd Phillips resta in mezzo al guado, non riuscendo a combinare come vorrebbe  l'ironia acida e stralunata di Una notte con gli umori apocalittici e anti-sistema della satira hollywoodiana più sofisticata (una tradizione che da Altman arriva fino a David O. Russell).

A suo favore gioca l'affiatamento tra due cavalli di razza come Jonah Hill e Miles Teller che, insieme al cameo di Bradley Cooper e a una promozione mirata a camuffare l'operazione, ponendola sulla falsariga dei precedenti film di Phillips, potrebbe inizialmente aiutare l'operazione al botteghino (negli Stati Uniti, dove è uscito il 19 agosto, ha incassato appena 40 milioni di dollari, un terzo di quelli totalizzati da Una notte da leoni 3).

Tratte da un articolo di Guy Lawson apparso su Rolling Stone nel 2011 (poi divenuto un libro dal titolo Arms and Dudes), le vicende di Trafficanti hanno inizio negli ultimi anni dell'amministrazione Bush, mentre gli Stati Uniti sono impegnati a a stanare jihadisti e a rovesciare dittature tra l'Afghanistan e l'Iraq.  Come tanti loro connazionali, Efraim Diveroli (Hill) e David Packouz (Teller) sono due newcomers del Sogno Americano, alla ricerca dell'affare giusto per "svoltare". Quale migliore occasione della guerra? "Ispirati" da un trafficante (Cooper) su cui grava un mandato di cattura internazionale e supportati da una rete di complicità interne ed esterne all'esercito, i due si improvvisano mercanti di armi scontate per le truppe americane impegnate in Medio Oriente. Il business funziona e le cose vanno alla grande finché i due partner rimangono in controllo, ma l'abuso di sostanze, i problemi familiari e un clima crescente di paranoia e diffidenza reciproca finirà per mandare tutto all'aria.

Dentro la cornice di una classica parabola di ascesa e caduta, sullo sfondo di due antieroi senza grandezza e di un'avventura senza chiaroscuri (come se la luce artificiale di Miami, tra decor di plastica, locali kitsch e appartamenti luxury, finisse per rendere monocromatico anche il soggiacente mondo morale),  Phillips, Chin e Smilovic infilano l'ennesima stoccata alla reggenza Bush e alla sua terrificante guerra al terrore, sputtanandone ambizioni e retorica. Sull'intera operazione sembra soffiare una ventata di ultimo Soderbergh, quello più certosino e meccanico. La mancanza di originalità non aiuta e Phillips non sembra ancora possedere la giusta sensibilità per bilanciare i differenti toni della storia. Il risultato non è troppo divertente né troppo serio, con alcuni momenti buoni (l'inizio e la lunga sequenza in Iraq, ad esempio), splendide location e canzoni da riscoprire, sommerse purtroppo dal vago e sconclusionato rumore di fondo del film.