Più grande dell'attesa per  il ritorno dietro la macchina da presa di Kim Rossi Stuart c'è solo la delusione per come si è risolto. Dieci anni dopo il toccante esordio in regia con Anche Libero va bene, l'attore e regista italiano sbaglia la seconda concedendosi un intemerato excursus nei dintorni del proprio ombelico.

D'altronde il titolo provvisorio diceva tutto: Il centro del mondo (seguito poi dal meno azzeccato ma altrettanto ludico L'intelligenza del maschio). Come dire: metto le mani avanti ma con ironia, non si dica poi che sono narciso. Ma non è il narcisismo il problema. Ci sono autori che hanno costruito carriere sulle proprie idiosincrasie e vanità, da Allen a, per restare solo in ambito italiano, Moretti.

Modelli a cui Rossi Stuart si richiama esplicitamente, portando in scena le nevrosi, i tic, la gestualità esagerata e l'immancabile analista. E ovviamente se stesso.

Rossi Stuart è Tommaso, Tommaso è Rossi Stuart. L'equazione non sembra prevedere filtri. Il protagonista è un attore bello, richiesto, amato ma anche una persona fragile, irrisolta, incapace di costruire progetti affettivi a lunga scadenza. Di fondo c'è un conflitto antico, un conto lasciato in sospeso con i suoi. Un bambino smarrito. Ma oggi la facciata è solo quella di un uomo che ama troppo le donne senza amarle davvero abbastanza. Così, nell'ordine, il nostro scarica Jasmine Trinca e Cristiana Capotondi. Perde la testa per Camilla Diana, che se lo cucina per benino, e finisce quasi per suicidarsi cercando di tirare giù da un albero un nido di processonaria.

Il tentativo di rifare il morettismo col phisique du role di un bellissimo come Kim Rossi Stuart si rivela velleitario, incapace tanto di divertire quanto di pensare/pensarsi più grande, oltre il circolo vizioso dei personalismi e dell'autobiografia. Ci sono problemi di vario tipo - dalla costruzione drammaturgica alla stessa ridefinizione di Kim Rossi Stuart come commediante, mai veramente convinto per essere anche convincente -  ma a balzare subito all'occhio è l'inconsistenza della sceneggiatura, fatta di sketch ripetitivi, di dialoghi improvvisati, di nudi generosi, di improbabili inserti onirici, di iperboliche esplosioni emotive. Tutto cucito senza speranza, senza guizzo, senza sensibilità cinematografica o poesia. Come se a forza di cercare un posto al sole tra la commedia alla Moretti, la leggerezza di Truffaut e l'intimismo felliniano, Tommaso/Rossi Stuart finisse nel cono d'ombra del tronismo televisivo. E' specularità col Paese anche questa, d'accordo. Ma involontaria, senza diaframma e d'immotivata tristezza.