Una partita di pallone, senza il pallone. È forse l'immagine simbolica più forte di Timbuktu, nuovo film del regista mauritano Abderrahmane Sissako che, come da titolo, racconta l'oggi della leggendaria città del Mali, stretta nella contraddizione di un passato glorioso, mitico e di un presente condizionato dalla repressione dei jihadisti islamici. Che impongono nuove "regole" (i guanti per le donne, musica e pallone al bando...) e vigilano affinché le stesse vengano rispettate. Attraverso una messa in scena che alterna momenti di grande respiro (alcuni campi lunghi difficili da dimenticare) a canoni narrativi propri del cinema africano, Sissako costruisce un film libero, a tratti elementare, che è di per sé metafora di un grido.
Fuori dalle mura erette con il fango regna il deserto, e con lui le dinamiche di una natura che continua strenuamente a sopravvivere: come la gazzella inseguita dalla jeep all'inizio e alla fine del film, costretta ad una fuga senza senso dai reiterati colpi di fucile di alcuni bracconieri. "Non la uccidere, stancala...". Ma l'Africa, e con lei i suoi figli, continuerà a correre, forse senza una direzione precisa, sperando di sopravvivere. Anche a se stessa. Un film dall'andamento lento, più ingenuo che furbo, esaltato però da almeno tre-quattro momenti di altissima suggestione. Uno su tutti: la veduta larga sul Niger al tramonto subito dopo il fortuito omicidio che cambierà le sorti di uno dei personaggi del film.