Dall’omonimo libro-inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini (Feltrinelli Editore), Pippo Mezzapesa dirige Ti mangio il cuore, in concorso a Orizzonti a Venezia 79, dal 22 settembre in sala.

In carnet, tra gli altri, Pinuccio Lovero. Sogno di una morte di mezza estate (2008) e Il paese delle spose infelici (2011), il regista inquadra una faida “di amore e sangue” in seno alla mafia, misconosciuta, garganica, e segnatamente la prima pentita, Rosa di Fiore, tradotta nella Marilena di Elodie, alla sua prima apparizione sul grande schermo. Potremmo sindacarne la verosimiglianza nel milieu, non la bravura: il trito “è nata una stella” poco direbbe, ma all’esordio si mette già dietro, per bellezza e presa, non poche più navigate attrici. Bella intuizione di Mezzapesa.

Fotografato in bianco & nero dal dop Michele D’Attanasio, Ti mangio il cuore inquadra, carte alla mano provviste da Bonini e Foschini e finzione à la carte, l’annosa faida tra i Malatesta e i Camporeale innaffiata del sangue chiama sangue e virata al lontano occidente, sì, Far West.

Nel cast Tommaso Ragno, Francesco Di Leva e Michele Placido, il film incontra-scontra una sorta di Romeo, l’Andrea (Francesco Patanè) erede dei Malatesta, e Giulietta, la Marilena moglie del boss dei Camporeale: sarà passione, ovvero guerra, senza esclusione di colpi, una lunga teoria di cadaveri cui eliminare coi connotati la memoria, una scia di sangue meccanica e (ri)vendicatoria, acefala e infinita. Ne rimarrà solo uno, o giù di lì, ed è un prassi insieme stolida e perversa, assecondata senza dubbio alcuno da Mezzapesa: inquadratura dopo inquadratura, caduto dopo caduto, le psicologie appena accennate, il plasma a fiotti.

Quasi una condensazione seriale, molto già visto per altri luoghi e altre mafie, anticipato nel pentitismo da Una femmina di Francesco Costabile, scartavetra Romeo e Giulietta nell’abiezione della reazione, non dà residenza all’interpretazione dello spettatore, si bea di una tecnica solida, persino virtuosa. Nulla più, quel che vedi è quel che hai: senza infamia né lode, prendere o lasciare.