"Zero è uguale al 93,789 per cento. Zero deve essere uguale al cento per cento". In una Londra di un futuro non precisato, Qohen Leth (Christoph Waltz) vive dentro una chiesa abbandonata. Disturbato ed eccentrico genio del computer, ha difficoltà a relazionarsi con il prossimo. La sua esistenza è condizionata dall'angoscia, nell'attesa di una telefonata che, ne è sicuro, gli darà finalmente le risposte che aspetta da tempo. Intanto, però, deve venire a capo del nuovo progetto affidatogli da Management (Matt Damon), The Zero Theorem, destinato a fornire la soluzione del mistero sul senso della vita: oltre ad un progressivo esaurimento nervoso, Qohen dovrà "sopportare" anche le incursioni della bella e disinibita (?) Bainsley (Melanie Thierry) e del giovane figlio-prodigio di Management, Bob (Lucas Hedges).

Sovraccarico, imperfetto e libero, il film di Terry Gilliam - in concorso a Venezia otto anni dopo I fratelli Grimm e l'incantevole strega - rimanda gli occhi e il pensiero a Brazil, ma la riflessione è spostata di trent'anni in avanti. Ai nostri giorni, che nel futuro rappresentato dal film trovano un'iperbole riproduttiva spaventosa: la connessione è amplificata, i rapporti umani distrutti. Non a caso, Qohen parla in prima persona plurale e allontana da sé qualsiasi tipo di contatto con il prossimo: il passo successivo è un buco nero. Lo stesso che Qohen sogna in maniera ricorrente, lo stesso che - ma è solo un'ipotesi - ci potrebbe ingoiare tutti una volta risolto il Zero Theorem. La perfezione è la fine, la virtualità - unico modo in cui Qohen riesce ad avvicinarsi a Bainsley - semplicemente un surrogato. Dove alla fine, ancora una volta soli, potremo palleggiare con il sole.

Disperato, bellissimo.

In concorso a Venezia nel 2013, trova finalmente una distribuzione in sala.