“Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”.

Viene tirato in ballo due volte Charles Darwin – “non ricordo chi l’abbia detto” – e in entrambi i casi viene citato per giustificare in un certo modo due azioni nefande.

Tra le specie che nel corso dei millenni si sono sapute meglio adattare al cambiamento vi è di sicuro la nostra, quella degli esseri umani.

Ma è nella fusione tra Darwin e James Baldwin che l’opera prima di Skinner Myers vuole imprimere il senso di un ardito e quanto mai suggestivo flusso di coscienza che nasce dalla consapevolezza di una frattura identitaria, dolorosissima e insanabile: “To be a Negro in this country and to be relatively conscious is to be in a rage almost all the time” (“Essere un negro in questo paese ed essere relativamente consapevoli significa essere quasi sempre in uno stato di rabbia”).

8 giorni di riprese, film realizzato con budget ridotto, scritto diretto e interpretato da Skinner Myers, The Sleeping Negro (dal 13 dicembre nelle sale USA, in anteprima italiana al XXV Tertio Millennio Film Fest e ancora senza distribuzione qui da noi ) – come da titolo – si sofferma sulla condizione esistenziale di un nero, integrato apparentemente nel sistema del privilegio bianco.

“Ho dieci giacche, dieci camicie, ventiquattro paia di calzini. Guadagno 6000 dollari al mese”.

Attraverso una narrazione che è prevalentemente linguaggio, fisico e cinematografico, Myers ci fa piombare in un incubo a occhi aperti dove la distorsione di inquadrature a 3/4, lo spostamento improvviso di oggetti, la comparsa minacciosa di oscuri doppelganger, non fanno altro che alimentare questo loop psicologico e ideologico dal quale è letteralmente impossibile fuggire.

Skinner Myers - Foto Karen Di Paola

Il protagonista (lo stesso Myers) è l’uomo di colore che ha accettato le regole di un gioco fondato sul capitalismo, gioco le cui regole, per definizione, escludono a priori coloro i quali sono stati spazzati via – prima fisicamente, poi moralmente, infine endemicamente – da una nazione che, oltre 5 secoli fa, ha cancellato dapprima i nativi per poi rendere schiavi gli afroamericani.

La potenza del film di Myers è proprio radicata in questo cortocircuito irredimibile: basta quindi – anche da nero – riuscire a far parte di questo ingranaggio per resettare il gap connaturato nelle fondamenta stesse di una nazione? E se per far sì che l’American Dream si concretizzi anche per te bisogna necessariamente passare per il compromesso, la truffa, ai danni dei tuoi simili?

La risposta, plateale e macabramente liberatoria, Myers la lascia al momento più esplosivo dell’intero film (che riesce a dire moltissimo in soli 72’), all’apice della discussione tra lui e la fidanzata bianca (Julie McNiven), ragazza agiata che proprio quella sera aveva in programma di presentare finalmente ai genitori il suo ragazzo.

“Ti ho comprato una camicia così sarai più presentabile”. Il white privilege, in fondo, finisce per annidarsi anche in cose futili tipo questa. E conduce inevitabilmente al fucking nigger! con cui si conclude la litigata. Perché, come detto, è un loop dal quale è impossibile uscire.

Un film politicamente e ideologicamente potente, che difficilmente parlerà ai radical chic e promotori social di battaglie da cancelletto. Proprio perché – come ricorda lo stesso regista – il problema non è risolvibile in questo modo.

Andrebbe resettato un paese, un sistema, o – più semplicemente – chiedere definitivamente scusa alla propria Storia. E ripartire dalle fondamenta. (Re)Birth of a Nation.