Ascesa e caduta di Lance Armstrong (Foster), ciclista plurivincitore del Tour de France (sette titoli) e responsabile del "più sofisticato programma di doping nella storia recente dello sport". I primi trionfi nel segno del doping, la vittoria contro il cancro, l'impegno contro la malattia (scudo mediatico per le future malefatte), le confessioni dei compagni di squadra, la pubblica ammissione: a parte Sheryl Crow e Pantani, il biopic di Frears mostra l'Armstrong ben noto allo spettatore, ben lieto di ricordare gli eventi prima che il film li proponga su schermo.

Ma per il resto, il film è un'occasione perduta: soffocati dall'esibizione voyeuristica di flebo e siringhe, e dalla divulgativa necessità di spiegare tutto coi dialoghi, Frears e lo sceneggiatore John Hodge badano più alla ricostruzione di facciata e alla somiglianza fisica dei personaggi che a mollare un significativo pugno allo stomaco dello spettatore. Il vero dramma sportivo di Armstrong è un dilemma etico: quanto è sbagliato vincere barando, se con le mie vittorie posso far bene a milioni di persone? Dilemma che il film, privo di empatia nei confronti del suo antieroe protagonista, rifiuta sistematicamente di affrontare.