Dapprima c’era il baratto, poi arrivarono i soldi. Infine comparve il “credito”. E da qui una serie infinita di nomi – bond, trust, margin call e via dicendo – e società offshore che “regolano” il mantenimento, lo spostamento, la “riservatezza” e la “segretezza” di enormi quantità di capitali.

Poi, nel 2016, scoppiò lo scandalo dei Panama Papers, fascicolo riservato composto da milioni di documenti creato dalla Mossack - Fonseca, uno studio legale panamense che fornisce informazioni dettagliate su centinaia di migliaia di società offshore, documenti che mostrano come individui ricchi, compresi funzionari pubblici, nascondano i loro soldi dal controllo statale.

Chi portò a galla tutto questo? Una fonte anonima. Ed è da qui che Steven Soderbergh decide di costruire il suo nuovo film, The Laundromat, scritto da Scott Z. Burns, basato sul libro di Jake Bernstein (Secrecy World: Inside the Panama Papers Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elite) e ospitato in concorso alla 76° Mostra di Venezia.

“Questa storia è basata su segreti veri”. Non serve molto a Soderbergh per farci intendere quale sarà la cifra (abituale per certi versi) con la quale affrontare tutta la questione: mette subito in primo piano il duo Mossack – Fonseca (Gary Oldman e Antonio Banderas), che su un set nel set ci spiegano per sommi capi come si è arrivati (e perché) dal baratto alle società offshore, poi introduce l’elemento fittizio – ma centrale, decisivo – di tutta la vicenda, Ellen Martin (Meryl Streep), rimasta vedova dopo un incredibile incidente, che inizia ad indagare su una frode assicurativa e arriverà fino a Jürgen Mossack e Ramón Fonseca.

Per scoperchiare cinematograficamente tutto il meccanismo di questa (apparentemente) inaccessibile lavanderia a gettoni, Scott Z. Burns e Soderbergh ci portano da una parte all’altra del mondo, costruiscono microstorie nella storia, dividono il susseguirsi degli eventi per capitoli, ritornano – se vogliamo – al coté mutaforma e irresistibile che contraddistingueva quel piccolo capolavoro di The Informant! (2009), pur non riuscendo a lambirne la completa riuscita.

Perché The Laundromat, sicuramente divertente e sorretto da un cast extralusso, è sin troppo dispersivo e altalenante, tratta – con merito – un argomento dalla portata e dalla complessità enorme con le armi della dark comedy (più comedy che dark, onestamente), spazia tra mucche, banane, azioni al portatore e veleno per topi, ma ne risente in fluidità, favorendo un involontario schematismo che, ad esempio, mancava in The Informant!: “Questa storia è basata su fatti reali. I personaggi e le situazioni sono stati però mischiati. E i dialoghi sono stati adattati. Beccatevi questo!”, l’avvertimento di allora.

Stratagemma che Soderbergh prova in parte ad utilizzare anche stavolta, preparandosi il terreno per un plot twist finale francamente abbastanza “telefonato” (termine mai così congruo, visto che è proprio una telefonata, a questo punto “inspiegabile”, che avviene verso metà film, ad introdurre il personaggio chiave). Ma anche qui, chissà, siamo dalle parti dell’artificio nell’artificio, meccanismo attraverso il quale, evidentemente, Soderbergh ha trovato la cifra con cui portare in superficie verità altrimenti difficili da raccontare.

Magari ricominciare a fare film senza stabilire nuovi record di frettolosità (con montaggi in "real time" e via discorrendo) potrebbe essere un altro accorgimento da tenere in considerazione.