Enrico V all’epoca de Il trono di spade. In The King ad Azincourt sembra di rivedere la Battaglia dei Bastardi: uomini massacrati, mischie selvagge, il senso di claustrofobia, l’impossibilità di respirare anche in campo aperto. In particolare c’è un’inquadratura su Falstaff che richiama direttamente Jon Snow.

Sguardo verso il cielo, soldati che abbandonano le armi per stritolarsi l’un l’altro. È la nuova estetica del cinema di ambiente medievale, che ormai è diventato un canone, specialmente quando si mettono in scena gli scontri tra le opposte fazioni. Netflix aveva utilizzato la stessa impronta anche in The Outlaw King.

Vengono annullati gli spazi, ci si concentra sul contatto, i duelli non sono più una danza. Tutto è brutale, sporco, spesso girato su terreni fangosi. Con il sole che fa scintillare il metallo delle armature e accentua il colore dei vessilli. E in The King si riparte dagli stemmi, dalle lotte tra casate, dagli intrighi di corte.

Il modello è l’Enrico V di Shakespeare, ma il regista David Michôd lo rimescola, lo rende molto più pop. Pone un maggiore accento sui rapporti familiari, aggiunge qualche colpo di scena, non si tira indietro quando si tratta di far scorrere il sangue. Lavora sui corpi dei protagonisti, contrappone la fisicità di Falstaff (un ottimo Joel Edgerton) alla fragilità del suo sovrano, interpretato da Timothèe Chalamet. E la differenza la si vede anche nella statura morale. L’amico e consigliere frena le ire del re, cerca di evitare le mattanze. Il giovane Enrico V ascolta paziente, fino all’inevitabile tragedia.

Il Cast - Foto Karen Di Paola
Il Cast - Foto Karen Di Paola
Il Cast - Foto Karen Di Paola
Il Cast - Foto Karen Di Paola

La ragion di Stato trionfa sull’etica, come anche, per citare un modello inarrivabile, nel Falstaff di Orson Welles. “Tu non sei quel tipo di uomo”, ripete Falstaff mentre si rifiuta di giustiziare i prigionieri francesi. Ma la sete di vendetta prevale spesso sul raziocinio. Così continua la riflessione sull’assurdità del potere tanto cara al cinema di Michôd.

In War Machine processava l’ambizione sfrenata dei burocrati, in Animal Kingdom “l’intrigo di palazzo” prendeva vita in una famiglia di criminali. E ancora. La progressiva perdita di umanità di chi comanda creava il modo post-apocalittico di The Rover, dove l’interrogativo era se nel caos si potesse riscoprire la pietà. Allora l’unica soluzione era imporre la legge della forza bruta. Oggi Michôd sceglie una via meno drastica. E offre una speranza nel dialogo tra i contendenti.

La chiave è la sincerità nel quotidiano. “Devi dirmi sempre quello che pensi”, spiega Enrico V alla sua sposa. Lui è stato un figlio ribelle, arrivato sul trono d’Inghilterra contro la sua volontà. Il suo è un percorso che inizia nei bordelli, dove il vino abbonda e ogni vizio è lecito. Da difensore della pace, si scopre guerriero. E rischia quasi di impazzire come Macbeth. Ma qui gli alberi non avanzano per rubargli il regno, è la sua stessa indole che rischia di portarglielo via. In un film dove Shakespeare incontra l’epica, e gli eroi hanno sostituito la virtù con l’ambizione.