Quando di un film si parla solo ed esclusivamente della performance di un attore/attrice, il sospetto che non ci sia nient'altro da dire è forte. Così, se due anni fa celebravamo il meraviglioso country-singer Jeff Bridges (premiato con l'Oscar) nel molle e vacuo Crazy Heart, oggi l'onore al merito va tributato a Meryl Streep, copia conforme di Margaret Thatcher nell'informe The Iron Lady. La Streep probabilmente farà incetta di premi (il Globe l'ha già vinto), il film invece finirà dove merita: nell'oblio.
Crudele scherzo del destino per un biopic che sull'ossessione della memoria gioca l'intera operazione. Phyllida Lloyd - che aveva già diretto la Streep in Mamma mia! - rievoca la dama di ferro dalla fine, quando vecchia, zoppicante, rallentata dall'ischemia cerebrale, trascorre ormai le sue giornate in compagnia di un marito già morto ma che lei continua a vedere (Jim Broadbent in formato Another Year) e di un passato duro a morire, ricucito alla buona e su misura di una indomita fierezza: è la Storia dentro la sua storia. E' lei a tessere il filo del passato, è lei a conferirgli senso, giudizio.
Da questa prospettiva monoculare e monocratica The Iron Lady non si sposta, spacciando per occhio introspettivo quello che è solo un ambiguo appiattimento di sguardo. Lasciare che sia la Thatcher a parlare della Thatcher è un'opzione controproducente dal punto di vista drammaturgico e pericolosa sotto il profilo etico. Il film ripercorre - affastellando ricostruzione scenica e materiale d'archivio - anni decisivi della vita della baronessa (da figlia di un droghiere a primo capo di governo donna della monarchia britannica, dall'energica cura economica agli scontri con i sindacati) e di quella del paese, senza mai un cambio di passo, discontinuità tonale, vero movimento. E' un film vorticoso, nervoso, di carrellate continue e raccordi disinvolti, tagli bruschi e ininterrotti rintroni sonori (voci, esplosioni, il punk e Bellini, la Casta Diva ovviamente), che però sta fermo, è tremendamente piatto, mosso solo in superficie. Vorrebbe rivivere l'esaltazione e l'allucinazione di un'avventura tutta personale, ma finisce schiacciato sotto questa fascinazione/allucinazione. L'impasse del progetto è evidente: la Lloyd è attratta e respinta da questa figura di donna forte, indomita, controversa; ammaliata e spaventata da un'eroina sgradevole, femminista sì ma dalla parte sbagliata.
D'altro canto, il vero quid dell'operazione è la liceità del taglio, la reductio ad unum e al privatum di un pezzo di Storia. Come e più di J.Edgar anche The Iron Lady sembra soppesare in maniera discutibile pubbliche questioni e affari privati, lasciando a questi ultimi l'ultima parola e, in definitiva, il compito di emendare le prime. Certo Eastwood ha una capacità di "sentire" e di farci sentire i suoi personaggi che la Lloyd può solamente sognare, ma le operazioni sono ambedue sintonizzate sulla nuova moda hollywoodiana: sfruttare il richiamo dei grandi personaggi pubblici senza affrontarne i nodi più spinosi della loro vicenda storico/politica.
Il brand della storia diventa il grimaldello promozionale per operazioni risolte interamente nell'intimo e nel quotidiano. Un tentativo di cogliere la persona dietro il personaggio non sempre giustificato e quasi sempre giustificatorio.