Mai in passato era stato permesso a una troupe cinematografica di entrare nel Palazzo di vetro dell'Onu. Le porte si sono invece aperte per Sydney Pollack, regista specializzato in thriller politici giunto alla fama per titoli come I tre giorni del condor, arricchendo in misura considerevole il pathos della vicenda e regalandole un sovrappiù di verosimiglianza. E realmente possibile è pure quanto accade a Sylvia Broome (Nicole Kidman), interprete in simultanea dal misterioso passato, che accidentalmente ascolta una voce organizzare un complotto ai danni del politico africano Zuwanie, guarda caso a capo del fittizio stato di Matobo dove lei stessa è cresciuta e al quale si sente ancora profondamente legata. Indecisa tra il denunciare l'accaduto e il mettersi al riparo dai pericoli cui certamente andrà incontro, sceglie la strada più difficile e da quel momento è costretta a evitare le rappresaglie dei complottisti decisi a tapparle la bocca, oltre che a convivere con l'ingombrante presenza dell'agente speciale Tobin Keller (Sean Penn), responsabile della sorveglianza dei leader in visita all'Onu. Non tragga però in inganno la presenza della coppia Kidman-Penn, qui in egual misura bravi, sensibili e trattenuti nella recitazione. Il loro è l'incontro di due anime ferite, niente a che vedere con scontate love story. Sylvia è una donna lacerata, bianca innamorata dell'Africa, obbligata ad allontanarsi dal proprio paese perché in mano a politici senza scrupoli, e segretamente in pena per il fratello oppositore del regime rimasto in patria. Tobin dal canto suo ha appena perso l'amata moglie, i suoi occhi non sarebbero capaci di fissarsi su un'altra figura femminile. A unirli è la stessa caparbietà, il medesimo desiderio di andare sino in fondo per portare alla luce la verità, anche a costo della vita. Ritorno in grande stile al cinema politico sostenuto dalla consueta maestria registica di Pollack, rappresenta un valido tentativo di coniugare spettacolarità e denuncia. Ma se gli intenti sono sinceri, le immagini sontuose, l'intreccio un meccanismo ben oleato, il risultato presenta un difetto di fondo. Inutilmente numerose le digressioni intorno alle crisi personali dei protagonisti, che allungano la durata a due ore e venti, laddove una maggior concitazione degli eventi centrali avrebbe contribuito a tenere lo spettatore in tensione. Difetto in ogni caso perdonabile a un'opera che ha il coraggio di entrare in un terreno minato, l'Occidente e i suoi rapporti con l'Africa, e di giocare la carta del giallo per puntare l'attenzione su problemi largamente e colpevolmente rimossi dal cinema. Che se poco può cambiare lo stato delle cose, avrebbe almeno l'obbligo morale di turbare le coscienze.