The Hurt Locker, la cassetta del dolore. Lì sono conservati in attesa di rimpatrio uniformi, medaglie e resti dei soldati americani caduti in Iraq. Un contenitore metallico, di forma rettangolare, che la Bigelow, tornata al cinema 6 anni dopo K-19, elegge a metafora di un'irriducibile distanza tra il valore di una vita umana e il suo significato nell'algido rituale militare: cassetta da chiudere e spedire in attesa che ne arrivi un'altra. Basandosi sul dettagliato reportage realizzato dal giornalista Mark Boal in Iraq, la Bigelow racconta i giorni vissuti pericolosamente da un reparto speciale dell'esercito, la EOD (Army Explosive Ordnance Disposal), destinata alle operazioni di bonifica dei campi minati iracheni. Nessuna battaglia campale ma solo il conto alla rovescia delle bombe ad orologeria, le crisi di nervi di soldati esposti a nemici invisibili, le imboscate e i tranelli dietro ogni via, finestra, montarozzo di terra. Sfruttando al meglio le possibilità della camera a mano e delle focali corte (sull'esempio del cinema inquieto di Greengrass, e il direttore della fotografia non a caso è Barry Acroyd, lo stesso di United 93), la regia ci costringe a condividere attese e pericoli, sangue e sudore dei soldati, non appiattendosi però su una rappresentazione "fisica" della guerra ma delinenando, scena per scena, una specie di elicoide narrativa che, priva di progressione drammatica, ci riporta sempre al punto di partenza. La guerra diventa così un eterno ricominciare daccapo, un continuo roteare del destino attorno all'asse vita/morte. Gli americani cercano di presidiare il territorio, prevenire attentati, muoiono o si salvano. Gli iracheni sono nascosti e quando si mostrano hanno volti indecifrabili: vittime o carnefici? Il leader della squadra degli yankee (un intenso Jeremy Renner), è il solo che ancora dubiti, tenti di venire fuori dal guscio, cerchi di "riconoscere" l'altro, ma incappa in un fallimento che mette a repentaglio la sua e la vita dei compagni. La Bigelow ha il merito di raccontare senza fronzoli, evitando risvolti melò e pretesti ideologici, ma si accomoda sui cliché del cinema a stelle e strisce, per come punta alla tensione (prendendosi però delle lunghe pause) e immagina la messa in scena: un Iraq simile al "pianeta rosso", inospitale e minaccioso, soldati americani dentro scafandri da astronauti e robottini esploratori in tilt al primo intoppo. Un debito con l'immaginario sci-fi sottolineato anche da una citazione (involontaria?) di 2001: Odissea nello spazio, quando l'oscillazione in ralenti di un ordigno riporta alla memoria quella dell'osso e dell'astronave nel capolavoro di Kubrick. Come se quarant'anni dopo quel "saggio sulla violenza" non solo la civiltà ma anche il cinema americano fosse ancora incapace di creare immagini nuove e prospettive inedite.