Con Terra madre Ermanno Olmi si occupa di contadini e si affida per la musica a Celentano. Entrambe sono non notizie, che danno però il senso di una continuità e di una coerenza piuttosto rare nel panorama del cinema non solo italiano. Che Olmi abbia saputo raccontare il mondo contadino narrandolo dall'interno non è una notizia. Che Celentano gli piaccia lo sappiamo da quando un giradischi un po' gracchiante diffondeva il rock and roll del molleggiato nazionale nei dintorni innevati e ovattati di un rifugio alpino appena la tempesta si chetava e anche le preoccupazioni per la salute del più giovane dei due occupanti tale rifugio venivano fugate. Era il primo lungometraggio di Ermanno Olmi. A cinquant'anni di distanza, resta un capolavoro di idee e di talento che per nulla patiscono il volontario ascetismo della realizzazione.
Ma Terra madre è molto di più di un segnale di estrema coerenza. Non è un film che guarda al passato, è un film che guarda al futuro. Olmi ha organizzato un folto gruppo di collaboratori che hanno seguito a spasso per il mondo alcuni contadini che erano stati tra i partecipanti di Terra madre, il raduno biennale dell'agricoltura mondiale voluto da Carlin Petrini (il benemerito fondatore di Slow Food) che si svolge a Torino sconfiggendo le ironie e l'aria di sufficienza con cui molti guardarono il progetto al suo primo manifestarsi. La scelta più facile sarebbe stata quella di far vedere un mondo che va scomparendo, usanze vecchie di millenni che rischiano di perdersi di fronte alla globalizzazione condite con un po' di quel compiacimenti folkloristico (e voyeuristico) con cui il Primo Mondo guarda quanto sta avvenendo nel resto del pianeta. Invece Olmi compie un'operazione completamente opposta, raccontandoci come l'aggettivo intensivo coniugato con il sostantivo agricoltura generi errori e orrori.
Tutto questo però non è da vedere come una specie di trattatello militante. Olmi fa poesia con le immagini e le immagini ci restituiscono poesia e suggestioni: il movimento che è nato nelle Langhe dalla reazione di chi era angosciato dal vedere crescere osceni capannoni su terre che per anni erano una vera e propria riserva di fertilità non poteva trovare narratore migliore per il proprio manifesto. E' come se la via Gluck non fosse più il ricordo di un cantautore, ma il progetto di una nuova città. E' come se il Viaggio lungo la valle del Po, l'inchiesta che Mario Soldati compì già negli anni Cinquanta per raccontare un'Italia che stava scomparendo, non fosse la testimonianza di un passato ma il progetto di un futuro. Ermanno Olmi ci è riuscito. Questo magnifico ottantenne si è dimostrato molto più allegro, ottimista, vivo, vitale e ansioso di futuro di molti suoi colleghi.