Ogni volta che il cinema affronta questioni etiche, viene da chiedersi se abbia realmente gli strumenti per farlo. La domanda si presenta di nuovo di fronte a Mare dentro di Alejandro Amenábar, film in concorso che si pone l'obiettivo di sviscerare un argomento complesso quale l'eutanasia. Si può parlare di una morte cercata, disperatamente voluta quando le condizioni di vita rendono un uomo poco più che un vegetale? Non c'è dubbio che un autore abbia l'autorità per farsi carico di uno dei dibattiti sociali più attuali e spinosi di questi anni, pur se l'impresa ha quasi il sapore di una sfida. Amenàbar accetta i rischi del caso ma per mettersi al riparo da critiche preventive attinge a una storia vera, quella del tetraplegico Ramon da ventotto anni confinato in un letto a causa di uno sciagurato tuffo nel mare che tanto ha amato e che, nonostante la tragedia , continua ad amare. E' alle trasparenti acque che bagnano la Galizia che infatti torna ogni volta che libera la fantasia, immaginandosi ancora in grado di muoversi. Sogni ad occhi aperti che lo vedono librarsi in aria e sorvolare la costa. La realtà, però, è ben diversa, cosicché Ramon pensa alla propria liberazione dalla malattia soltanto attraverso la morte. Da anni si batte per una fine che chi lo ama non riesce invece ad accettare né tanto meno a lasciarsi coinvolgere nel gesto estremo che è impossibilitato a compiere di persona. Cerca allora rifugio nelle leggi dello stato, ma non esistono tribunali che possano autorizzare quello che a tutti gli effetti è un suicidio. La vicenda umana, dopo tanto dolore e infinite battaglie, termina come la cronaca ha riportato, cioè con la morte di Ramon. Restano tuttavia aperte le infinite domande che Mare dentro pone, e che non trovano una soluzione con la fine del film. Che, a dire il vero, lascia un senso di incompiutezza dovuto al fatto che con la morte, tanto evocata, il protagonista non si confronta mai veramente. Quando ne facciamo la conoscenza ha già preso la sua decisione, e granitico nella scelta non spiega mai a nessuno come è arrivato a compierla. Mai un tentennamento, mai un rigurgito di attaccamento alla vita. Tentennamenti che al contrario fanno vacillare persino Gené, combattiva portavoce di un'associazione a favore dell'eutanasia che gli è amica da anni. Tutti vorrebbero vederlo ancora vivere, e noi con loro, accomunati in questo afflato in virtù di una regia che non risparmia gli effetti melodrammatici e che annulla qualsiasi distacco. Ecco, se è possibile rintracciare un difetto di sguardo è quello di aver fatto un film di pancia laddove necessitava invece intervenire di testa. Lo spettatore è continuamente trascinato dentro la storia, non gli è lasciato lo spazio per pensare. Si piange, e tanto, dunque. Ma i pensieri sono colpevolmente bloccati dal groppo in gola, dalle lacrime che scendono copiose. Si vorrebbe invece percepire il dolore dell'avvicinarsi della morte. Che nel film finisce per essere solo una compagna a lungo corteggiata, non uno dei grandi misteri dell'esistenza.