"La prigione stimola la mente a vagare e ad abbandonarsi alla propria illimitata libertà. In carcere non esistono barriere tra la cella e l'infinito, tra l'idea e la realtà. Visto che in carcere si è liberi come in nessun altro luogo, tornare fuori non è una cosa semplice". (Un detenuto). Dopo alcuni anni passati in prigione, Tony Zanchi (Ivan Franek) può riassaporare il gusto della vita al di fuori delle sbarre. La riabilitazione sarà completa, secondo educatori e psicologi, solo attraverso un periodo di semilibertà. Inizierà a lavorare per un caseificio, Tony. E ogni sera dovrà fare rientro in carcere. Ma anche nel mondo reale, quello dei "liberi", vigono regole non scritte dure a morire: stretti nel cappio di alcuni usurai, Bianca (Donatella Finocchiaro) e Alfonso (Vincenzo Peluso), rispettivamente nipote e figlio del proprietario Cimarosa, non riescono più a governare le redini del caseificio. Che, prima o dopo, crollerà su se stesso. Dapprima semplice osservatore, Tony non potrà trattenersi di fronte all'ennesimo sopruso, mettendo seriamente in pericolo la sua già precaria situazione. Intelligente e doloroso sguardo sul reinserimento quale tappa necessaria per riprendere il filo di una vita spezzata, Sulla mia pelle di Valerio Jalongo fornisce spunti di riflessione su una realtà, quella dei semiliberi, che trova quotidiane connessioni con la cronaca dei nostri giorni. La riappropriazione della dignità di essere umano, attraverso il lavoro e il rispetto categorico di orari e regolamenti, si scontra con un "fuori" che da miraggio luminoso può trasformarsi in nerissimo punto di non ritorno: aveva un figlio, Tony (ben interpretato da Franek, con la voce di Fabrizio Gifuni), ma neanche ora gli permettono di vederlo. Prova a non farsi invischiare dal marcio che gravita sul suo "lavoro", ma non può rimanerne esente. Dentro, come fuori, il semilibero che si appresta a ritrovare posto nella società civile finirà per rimanere solo. E, nella maggior parte dei casi, tornerà a delinquere. Perché, come dice lo stesso regista, che ha realizzato il film anche grazie alla collaborazione di alcuni detenuti durante un seminario a Rebibbia, "il nostro è un Paese al tempo stesso idealista e terribile: suscita grandi aspettative ma poi non ha la forza, la costanza, il coraggio della verità.". Le denunce più efficaci, alle volte, passano proprio dal grande schermo.