Nonostante un plot dal discreto potenziale, quello di Submergence, il libro di J.M. Ledgard, Wim Wenders risulta atipico nell'adattarlo sul grande schermo, e si ritrova innanzitutto a confronto con se stesso.

La trama racconta di un legame improvviso, eppure saldo, tra una biomatematica (Alicia Vikander) e una spia del governo britannico (James McAvoy), si intuisce da subito dove potrebbe andare a parare. Meno ovvio è il quando, che, puntualmente, sorprende in negativo.

I due protagonisti, con solo qualche giorno ad unirli, si trovano a soffrire in maniera inaspettata della propria, duplice, lontananza. Ma il già citato potenziale della storia rimane subacqueo come le frequenti immersioni di lei nell’oceano Atlantico, perché dopo la parabola iniziale, la trama riparte dall’inizio e il ritmo, anch’esso inabissato, riemerge con estrema difficoltà.

 

Da una parte, la Vikander all’esplorazione dei fondali marini, dall’altra, McAvoy sequestrato in Somalia. Incapaci di comunicare l’una con l’altro, lo fanno attraverso i ricordi. Ma l’azione, che dovrebbe svilupparsi in parallelo a questi ricordi, latita fino all’epilogo.

E non finisce qui, anzi, finisce qui, ma persino la conclusione è mutila, non tanto aperta quanto volutamente nebbiosa, ricercata oltre il controproducente, priva di qualsivoglia conforto che lo spettatore attende per gli ultimi tre quarti di film.

Resta una buona interpretazione dei protagonisti, per fortuna comunque centrale tra i pesi specifici della struttura: se la si spoglia a sufficienza di strati, è una storia d’amore densa, negli sguardi e nei tocchi, vicini o lontani, senza inizio né fine. Se vi basta, immergetevi pure.