La morte lo fa bello. E' anche bello il film di Andreas Dresen, Stopped on track, ma non solo né soprattutto. E' buono e vero, e commuove da far male. C'è poco cinema, potremmo dire del “bello”, perché a dare negli occhi è la vita, quella che se ne va e quelle che rimangono. Ma il cinema non va fuori dal campo, rimane e si fa sentire solo quando e perché serve: se di settima arte vogliamo parlare, questo è un ready-made, che prende l'esperienza più universale al mondo e ne fa un canto alla vita, tragico e ineluttabilmente comico, perché quando ti muore un padre non puoi rimanere al suo capezzale, ma devi andare fuori “ad allenarti”, per tuffarti dal trampolino che ora tocca a te, e te (da) solo.
Costruito dopo lunga documentazione medica e psicologica, veri medici nel cast e sceneggiatura fluida, scritta dalla libertà e l'improvvisazione di attori sapienti ed empatici, Stopped on track è ad oggi – e per quel che abbiamo visto – il film migliore di Cannes 64 (è nella sezione Un Certain Regard). Non perché la forma sposti più avanti i confini del cinema, ma perché la storia ci riporta indietro al grado zero della nostra esistenza, quello che, viceversa, l'immaginario occulta e i mass-media espellono “farmacologicamente”: la morte, che ti viene diagnosticata di lì a due o tre mesi, quando hai solo 40 anni, due figli e una moglie cara, ma il tumore al cervello non si può operare.
Tocca a Frank (Milan Peschel), che lavora per la DHL ed è uno qualunque, con una piccola casa, la sua Simone (Steffi Kuhnert) a manovrare il tram, il piccolo Mika da crescere e la figlia più grande Lili a lottare per la sua adolescenza. Simone piange quando il medico dà l'ultimatum,Frank no, ma dentro gli piangono due domande: perché io, perché ora?
E' il tempo dell'addio: breve e insieme lungo, perché il tumore si espande e le giornate si fanno più corte, più immemori e il tuo caso te lo trovi “per sogno” anche alla radio e in tv. Inizi a tornare indietro: non sai più montare un letto, la testa ti gira e vomiti, i cani corrono troppo e dove non devono, tua moglie è amorevole e paziente, ma non ne può più. Neanche tu, del resto, e se non puoi riprenderti riprendi la tua fine con lo smartphone: frammenti, barzellette, i capelli che se ne vanno, quello che ancora ti tiene in vita, i sorrisi e i non sorrisi dei tuoi.
Passa tutto, anche i genitori di Frank: ma non torneranno, lo farà solo il padre, perché mamma non regge, mentre Simone si becca pure gli insulti del marito, quel marito che inizia a non essere più lui. A seconda della fase dell'addio, che cambia più dell'umore: isolamento, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione, per la scienza è questa la cronologia emozionale che ci accompagna alla morte, ma Frank e Dreisen la mischiano, ne fanno un patchwork slabbrato e incontrollabile come il tumore in testa.
Arriverà il definitivo stop, ma prima abbiamo sentito dentro le ragioni di tutti: chi va e chi rimane e deve incominciare a staccarsi, accettare una morte di un caro per avere ancora cara la propria vita. Ma di questo vulnus lo sguardo del regista non fa pornografia né ricatto: i colpi di scena, le tacche del tracollo sono anche osceni, ma perché così vuole la vita agli sgoccioli e non la rappresentazione, che tra tutte è la cura migliore offerta a Frank e alla sua storia finita.
Così è la vita, così anche quando non è più, ed è un film bello, buono e vero. Che fa male: ma se non ora quando?