Ci sono film che hanno una grazia rara: ci fanno sentire meglio, migliori. E' una grazia che Still Life di Uberto Pasolini possiede. E' un film che si prende cura di noi, prima di tutto. Si svela pian piano, attento a non perdere mai poesia e interesse. Chi è John May? Chi è l'uomo che assiste in solitaria a tutti i funerali, in piedi, giù in fondo, mentre si compie l'estremo rituale?

Interpretato da magnifico Eddie Marsan, John è un impiegato del Comune incaricato di trovare il parente più vicino di coloro che sono morti da soli. Quando non vi riesce, il più delle volte, tocca a lui organizzare le esequie, prendervi parte, inventare ricordi e parole di un cordoglio. Restituire a chi non c'è più la dignità di una storia che nessun altro potrebbe più raccontare. Un senso del loro passare.

John svolge il proprio lavoro con una scrupolosità maniacale. Di più: raccoglie le loro foto in un album dei ricordi. Come fossero i suoi. Del resto John non ha nessuno, anche lui sembra morto, rispetto ai vivi mostra però più cuore e passione. Il comune lo licenzia - la sua scrupolosità è una perdita di tempo e di denaro - non prima però di aver chiuso l'ultimo caso.

Pasolini, filmaker italo-inglese, ci porta dentro l'ossessione buona di quest'uomo senza morbosità, ma con un rispetto e una sensibilità che sciolgono. Sospeso su una nuvola di leggerezza, affidato a un'efficace poetica degli oggetti (la "natura morta" del titolo), Still Life è un delicato valzer degli addii, un'opera che riporta lletteralmente la morte "in vita", rivelando i legami che misteriosamente uniscono viventi e defunti.

Con la disarmante semplicità della messa in scena, l'ineffabile malinconia del sonoro, la sensibile performance attoriale, il film penetra la materia dura e ottusa dell'esistenza con una forza e un sentimento rari. Un'opera autentica, emozionante, profondamente conciliante, che vale tutte le sue lacrime.