Due tra i più bei film di quest’anno condividono bizzarramente una parola, anzi un nome, Lisa. Lo spiraglio nella corazza di un uomo leggendario, Steve Jobs di Danny Boyle (e soprattutto di Aaron Sorkin, uno degli scrittori di cinema e televisione più geniali in circolazione), in uscita a gennaio, e in pole position nella corsa agli Oscar.  La bacchetta magica per un uomo di plastilina, in Anomalisa di Charlie Kaufman, che per un momento s’innamora, dimentica la famiglia, la fatica della routine grazie alla voce meravigliosa di una donna, che si chiama appunto Lisa: l’anomalia in una vita di mediocrità. Opere diversissime, una in stop motion, eppure di una crudezza inimmaginabile, l’altra con attori fenomenali e uno script shakesperiano. Ma in entrambi è una Lisa a far prevalere o trapelare  il sentimento. Si chiama così anche la figlia di Jobs: nonostante lui cerchi di rifiutare la paternità in tutti i modi, sostenendo con un  algoritmo che ci sono ben  28 possibilità su cento che non sia  il padre,  non può infine ignorare l’evidenza: la prima volta che Lisa gioca con il programma di pittura del computer, dando prova di aver ereditato qualcosa in più dei tratti somatici. Per lei che ascolta sempre la musica, lui intravede un oggetto minuscolo che conterrà almeno 500 canzoni. L’iPod che verrà.

Il film è diviso in tre parti, il lancio del Macintosh in un campus vicino a Cupertino nel 1984, quindi  il cubo nero della Next nell’88 e quello dell’iMac nel ’98. Boyle sceglie di girare in 16mm, quindi in 35mm e poi in HD, seguendo la rivoluzione estetica di Jobs e riprendendolo da vicino, da lontano, facendo sua  la tecnica di Sorkin “Walk and talk”, che ha rivoluzionato il modo di fare le serie (prima tra tutte West Wing) e si basa essenzialmente sul dialogo, le persone camminano e parlano in continuazione, metodo vicino al Jobs pensiero.  Sorkin e Boyle, all’apparenza pianeti lontani anni luce, hanno trovato la chiave, la nota giusta, per raccontare quello che finora sembrava impossibile: la leggenda di Steve Jobs. Quando Boyle ha ricevuto la sceneggiatura di Sorkin, quasi 200 pagine, si è concentrato su ogni atto separatamente, facendo recitare gli attori e girando la storia cronologicamente. Questo ha permesso a Michael Fassbender di entrare totalmente nel personaggio: capelli lunghi,  corti, ancora più radi, progressivamente sempre più  Jobs nella mimica, nel fisico, nell’atteggiamento. Un uomo duro, a volte crudele, un visionario. Affascinante e anaffettivo, convinto di essere Giulio Cesare assediato dai nemici. Non si fidava di nessuno, fatta eccezione per il capo marketing Joanna Hoffman (Kate Winslet , straordinaria, riesce persino a sembrare bruttina all’inizio), che lo guida nei momenti più critici, come la crisi con la figlia ormai diciannovenne.  Il rapporto con Steve Wozniank (bravo anche Seth Rogen), l’amico con cui è incominciata l’avventura in un garage. Il giovane con il know how e il ragazzo con il sogno, o meglio la visione che avrebbe cambiato il futuro, la comunicazione, l’interazione a livello mondiale.

La rivoluzione di Jobs è chiara fin dall’inizio, mentre parla con John Sculley (Jeff Daniel) ex executive della Pepsi: “Metti un computer nelle mani giuste. Fallo diventare uno strumento bello, elegante, una prolunga di te stesso, trasforma il pc, una macchina oscura e inquietante, in qualcosa che possono e voglio usare tutti”. Jobs va avanti, imperterrito, sebbene ci siano le difficoltà con la Apple: i Mac sono belli ma non rendono quanto dovrebbero. Inventa qualcos’altro: la scatola nera Next che ha un sistema operativo che si porterà dietro quando tornerà all’Apple come Ceo. Un capo feroce quanto appassionato che spinge i suoi a lavorare anche 20 ore al giorno, e dice ai designer: “Puoi fare di meglio”. Una, due, tre e quattro volte prima di guardare davvero che cosa ha davanti. Che sprona il team  perché dia il meglio ma è incapace di essere gentile o almeno "a decent man” come gli rimprovera Steve.

Ambizioso, audace, intelligente, elettrizzante, il ritratto di Sorkin deve qualcosa al libro di Walter Isaacson, ma si basa su altro, interviste, ricerche e invenzione. Un film impressionante in cui non ci sono sbavature, cliché: tutto si svolge senza perdere un colpo come una scintillante prova d’orchestra. Lo stesso Jobs se pensava a un equivalente, del resto,  si vedeva come un direttore che esegue una partitura perfetta.