"Ci sono giornalisti-giornalisti e giornalisti-impiegati", diceva il capo-cronaca di Giancarlo Siani, come ci ricorda Marco Risi in Fortapàsc. E stranamente deve esser arrivato all'orecchio di Russell Crowe, reporter protagonista di State of Play diretto da Kevin MacDonald (L'ultimo re di Scozia) e scritto con Michael Carnahan, Tony Gilroy e Billy Ray. Determinato, energico e quant'altro, il suo giornalista-giornalista Cal McAffrey visita un obitorio, imbosca delle prove, interroga rudemente un testimone, finisce più volte sotto il fuoco, ma in compenso scrive poco, pochissimo, e senza l'assillo di deadline. In breve, è troppo bello, lui e il suo lavoro, per essere vero.
Se gli fa difetto la credibilità, come pure al suo capo duro, puro e generoso Helen Mirren e alla dolce e valente apprendista - nessun ombra di precariato, ovvio - Rachel McAdams, in compenso a questo dramma politico-giornalistico, adattato a Washington dall'omonima miniserie del 2003 prodotta da BBC e ambientata a Londra, manca pure qualsiasi criterio di novità, partendo dal plot giù fino alle caratterizzazioni dei personaggi, tra cui il torbido astro del Congresso Ben Affleck, la sua splendida - e sotto utilizzata - mogliettina Robin Wright Penn, il manipolatore Jason Bateman e il machiavellico senatore Jeff Daniels.
C'erano una volta gli anni '70, ovvero il Watergate e Tutti gli uomini del presidente, sono arrivati i '90 con la stanza orale di Clinton e Lewinsky e le "soffiate" di Drudge Report, all'alba del terzo millennio la carta stampata sta per traslocare sul web, portandosi appresso un esercito di giornalisti-impiegati: il caro Cal McAffrey che c'azzecca? Poco o niente, purtroppo.
Sarà pure State of Play, di certo non è stato dell'arte giornalistica, e al suo reporter manca solo la pistola perché agli occhi del pubblico diventi uno sbirro. Rimangono attuali il circolo vizioso di politica e giornalismo, gli intrighi vari e assortiti, la sicurezza in svendita, ma non c'è nessuno che sappia raccontarlo. Almeno con credibilità.