Si può fare un film su David Bowie con un attore brutto o, se preferite, non bello come lui era a incarnare David Bowie? Soprattutto, si può fare un film su David Bowie senza le canzoni di David Bowie? Se vi piacciono, per così dire, le emozioni forti, Stardust è il vostro film.

In cartellone alla Festa del Cinema di Roma, regia di Gabriel Range, dà a Johnny Flynn (Emma) il compito di incarnare il ventiquattrenne Bowie che nel 1971 parte per l’America per promuovere il nuovo disco, The Man Who Sold the World.

A casa lascia la moglie incinta Angie (Jena Malone), Oltreoceano trova ad accompagnarlo in tour un addetto stampa della sua etichetta, la Mercury Records, Ron Oberman (Marc Maron), ma per un problema di visto, turistico anziché di lavoro, non può suonare, se non per feste e meeting privati: un fiasco o poco più, sennonché proprio in quel peregrinare, fisico e psicologico, troverà i semi, e non necessariamente bad seeds, per germinare il suo alter ego più celebre, Ziggy Stardust.

Ovvero contenere i disturbi della personalità, se non schizofrenia tout court, che già minavano i familiari, soprattutto il suo fratellone e nume musicale Terry (Derek Moran) che nel 1967 era finito in manicomio: a quel disco aveva affidato le sue paure di impazzire, in quel viaggio trovò la forza per sublimarle con Ziggy.

Gli attori, a parte l’esangue Flynn, non sono male, Range ha fatto di meglio (Death of a President), Stardust non è nemmeno vorrei ma non posso, è più una scopata triste, una tranche de vie con personalità multiple, altrettanti fantasmi e poco, davvero poco entusiasmo, per tacere della musica.

In assenza dei pezzi di Bowie, il pressbook si premura di specificare come all’epoca facesse molte cover, Flynn canta Jacques Brel, gli Yardbirds e – scritta di suo pugno - Good Ol ’Jane. Non sarebbe male, in fondo, mettere una moratoria sui film musicali. Per un po’, almeno.