Se non fosse pensato come un horror di cassetta, deputato dunque a far sgranocchiare popcorn tra un salto sulla poltrona e un altro, Slumber sarebbe un utile caso di studio per fotografare gli attuali orizzonti del genere. L’horror americano sembra aver silenziato d’un tratto le pulsioni sadiche del torture porn e la traduzione giapponese dei yūrei, i cattivissimi spiriti.

È tornato invece in un recinto di paure domestico, popolato da figure della tradizione occidentale come babau e uomini neri. Ha rimesso al centro il bambino, come elemento di convergenza delle proprie strategie discorsive e dei suoi moventi impliciti, riconfigurandosi come testo sulle emozioni ancestrali e sui traumi rimossi e non risolti. Con le personificazioni del buio e del sonno, ovvero dell’oscurità e della morte, come piano di lavoro allegorico.

Insomma più Freddy Krueger e meno Samara, per usare formule di facile digestione, con una cappa di psicologismo che ora protegge e ora opprime, dipende dall’uso e da chi ne fa uso. E qui iniziano i problemi dell’horror americano contemporaneo di cassetta. Perché il ritorno ad abiti più abituali è avvenuto senza sarti all’altezza: tradotto, abbiamo avuto delle riproposizioni prive di fantasia di situazioni bambino/buio/paura/babau con brividi telecomandati (i cosiddetti jumpscare).

 

Slumber rivela una pochezza registica e di scrittura che finisce per compromettere la potenziale ricchezza del soggetto. Il demone che si palesa tra il sonno e la veglia – per dirla con l’etimo: il mare di Nightmare – per prendersi l’anima del bambino (metafora del rischio di soccombere alle nostre paure se non affrontate), trova terreno fertile in un habitat familiare disaggregato.

Che era poi l’intuizione del ben più riuscito Babadook. In questo caso invece lo spunto si squaglia in una serie di soluzioni narrative infelici - come quello di suddividere prima in due e poi in tre linee diegetiche il plot, con un effetto accumulo piuttosto dispersivo e non semplice da seguire – e l’idea suggestiva di perimetrare il fenomeno all’interno di una clinica per il sonno si rivela poco più che un espediente.

Eppure tre anni fa era passato al Sundance il bel documentario di Rodney Ascher (Nightmare) sui disturbi del sonno, in particolare sulle parasonnie, all’origine di molti dei fenomeni “soprannaturali” di cui di tanto in tanto si fa testimonianza. Se il taglio scientifico del doc di Ascher rivelava uno sguardo totalmente scettico, il film di Hopkins opta al contrario per un approccio irrazionale, quando invece la mescolanza tra i due registri (e la possibilità lasciata aperta che siano veri entrambi) poteva rappresentare un equilibrio efficace dagli effetti sorprendentemente sinistri.