Tratto da uno dei più famosi fumetti degli anni 90, Sin City condensa in due ore la saga di alcuni eroi pulp, oscuri, marginali, sconfitti dalla vita. Lo fa con la consueta abilità di Robert Rodriguez per le scene d'azione, la consulenza cinéphile di Quentin Tarantino e soprattutto la partecipazione alla regia dell'autore Frank Miller, l'unica vera, possibile guida alla conoscenza del personaggi che popolano la città del vizio. Dotato di uno sguardo glamour che fa di ogni immagine la sintesi di un procedimento estetico estremamente controllato, il film racconta sostanzialmente tre storie: nella prima un poliziotto salva una bambina dalle grinfie di un assassino seriale e pedofilo, politicamente iperprotetto; nella seconda un bruto dal cuore gentile vendica crudelmente l'omicidio dell'unica donna che lo abbia amato; nel terzo si assiste a una guerra fra prostitute guerriere, poliziotti corrotti e criminali mafiosi. Il tutto è incorniciato dalla presenza inquietante di un killer dalla faccia d'angelo che fa sparire donne belle e infide. Sin City è già un oggetto di culto sulla carta e si avvia diventarlo nelle forme del cinema. Tecnicamente non si discute e neppure a livello di messa in scena: sullo schermo tutto fila liscio, fra corpi plasticamente attraenti, colpi di scena e effetti splatter. Semmai ci si domanda qual è il senso dell'operazione, se non quello della devozione a un segno grafico, ad una poetica noir e al desiderio mercantile del business. A noi viene in mente che il cinematografo è l'arte delle immagini in movimento, ma anche il momento di un progetto ideale di congiunzione fra esigenze estetiche e valori etici. Qui l'estetica sembra invece talmente invasiva da cancellare ogni spazio al ripensamento. La sensazione finale è allora quella dell'oggetto formalmente attraente (come molta merce resa ambita dalla pubblicità), ma del quale non si sentiva particolarmente il bisogno.