Christina Hodson riporta su carta le suggestioni vissute in prima persona e provocate da inspiegabili rumori notturni che si udivano nel suo fatiscente monolocale newyorkese. Cosa provocasse questi inquietanti rumori (dei topi nello scantinato o le vecchie mura) non ci è dato saperlo; ciò che è interessante però è che, da questa piccola esperienza personale, la Hodson sia stata in grado di sviluppare la trama, a tratti interessante e a tratti ultra derivativa, di un thriller che vede protagonista la due volte candidata all’Oscar Naomi Watts, qui nel ruolo di psicologa infantile.

Shut In mescola al suo interno dramma, thriller e horror. In realtà, di quest’ultimo sottogenere rimane ben poco, se non qualche vago rimando che lascia intendere allo spettatore una probabile parentesi metafisica, poi di colpo riversata nei confini prettamente materialistici. Il plot diretto da Farren Blackburn, volendo citare necessariamente qualche riferimento, potrebbe essere definito un mix tra The Visit di M. Night Shyamalan, Insidious di James Wan e persino il nostro fulciano capitolo appartenente a quell’ormai celebre trilogia della morte Quella villa accanto al cimitero. La sequenza sul finale che vede la protagonista munita di martello schiodare le porte dell’abitazione per darsi alla fuga non può non far balzare alla mente dei cinefili più dediti all’horror il film con Paolo Malco e Katherine MacColl, già solo per i rimandi alla psicanalisi e ai disturbi mentali in entrambi i lavori.

Mary Portman, dopo l’incidente stradale che le ha portato via il compagno e ridotto il figliastro diciottenne Stephen (Charlie Heaton) in stato vegetativo, vive e lavora, senza mai allontanarsi, nella sua abitazione a stretto contatto col ragazzo. L’improvvisa scomparsa di un suo paziente, il piccolo Tom (Jacob Tremblay), turba e coinvolge fortemente la psicologa che sarà testimone di strani avvenimenti che la condurranno a un’inquietante scoperta.

Shut In vanta dei veri e propri picchi adrenalinici misti a tensione, ben calibrati e diretti con cura dei dettagli: Blackburn è capace di far trasalire ricorrendo semplicemente al sonoro e a qualche effetto sorpresa, senza futili spargimenti di sangue o altro. Come tutti i film ambientati in un unico spazio, Shut In si presenta claustrofobico, cupo e opprimente, tentando anche una brusca sterzata verso l’home invasion, ma forse è proprio il tentativo di voler condensare troppi sottogeneri in soli 90’ a rendere il film un po’troppo pasticciato, prevedibile e confuso. Eppure le buone idee non mancano, peccato soltanto che non siano state ampiamente sfruttate per lasciar spazio invece a scene sì d’impatto, ma già viste. La prova attoriale supera ogni aspettativa, ma la sceneggiatura rimane per troppo tempo piatta, per poi concentrare l’azione intorno all’ultima mezzora.