A volte il giudizio su un film può trascendere una valutazione fredda e distaccata dell'opera e lasciarsi andare a un approccio più emotivo. Soprattutto se chi lo esprime conosce, per ragioni anagrafiche e affettive, l'universo di riferimento vissuto, raccontato e sublimato dai The Pills, il collettivo romano formato da Luca Vecchi, Matteo Corradini e Luigi Di Capua, autori del proprio lungometraggio d'esordio Sempre meglio che lavorare. Un mondo ancorato a Roma, in bilico tra il cuore della città eterna e la sconfinata periferia, proprio come i protagonisti del film sono sospesi tra un'adolescenza infinita e un'età adulta da rifiutare con tutto il suo carico di grigiore e di responsabilità.

I The Pills sono diventati un cult del web grazie ai loro irresistibili sketch di pochi minuti su YouTube, che hanno raccolto milioni di visualizzazioni. Il leitmotiv dei loro video ruota intorno al tavolo dove i tre discutono e fumano di tutto, ingurgitano caffè e riflettono a ruota libera sull'esistenza e i suoi problemi. Il film, prodotto da Pietro Valsecchi (lo stesso di Checco Zalone; pare anzi che il comico pugliese gli abbia fatto conoscere il terzetto), non poteva che partire da lì, da quel tavolo e dalla vita quotidiana di questi tre quasi trentenni compiaciuti della propria voglia di non fare niente e completamente alieni dall'idea di assunzione di responsabilità e (orrore!) di lavoro.

Il cuore delle tre sottotrame del film è nella storia di uno di loro (il personaggio di Luca Vecchi, anche regista) che, per amore di una ragazza (la cantautrice Margherita Vicario), compie il massimo sacrilegio e rompe il patto di sangue stilato fin da bambini dal gruppo: inizia a lavorare così tanto da rimanere risucchiato in un vortice di work-alcoholism e da dimenticare i suoi amici...

A volte bisogna essere emotivi, anche nelle recensioni. E chi ama i The Pills e la loro dissacrante comicità che ha regalato senso e dignità a una produzione a torto considerata "inferiore" come quella delle web series, sarà capace di perdonare tutti i limiti della loro opera d'esordio al cinema: una trama lacunosa e claudicante, diverse discrepanze nel ritmo nella narrazione, che in alcuni passaggi appare stentato, forzato, forse perfino una totale mancanza di etica che, da insostituibile presupposto comico, può risultare irritante.

Ma, lungi dall'essere una semplice commedia surreale piena di citazioni realizzata da un terzetto di cinefili talentuosi ma inesperti, Sempre meglio che lavorare trova la sua forza più incisiva in un sottotesto profondamente malinconico. Tra una battuta e l'altra, in una tempesta irriverente che trasforma Carmelo Bene e Pasolini in personaggi dei fumetti Marvel e DC e i bangla (i negozi di alimentari gestiti da cittadini del Bangladesh e diffusi in tutta Italia) in una buffissima e potente multinazionale, si percepisce durante il film una vena malinconica che umanizza tutte le maschere comiche e unisce ancora più intimamente i The Pills con il proprio pubblico di riferimento. Che è ben preciso, confuso in un'età indefinita e in un mondo che calpesta i sogni, oscillante tra una dolcissima e antica adolescenza e le sfide titaniche che comporta il diventare uomini e donne adulti.

Per fortuna che i The Pills non vogliono crescere (anagraficamente): continueranno a farci ridere. E sospirare.