Dopo Malcolm X (Spike Lee, 1992) e Medgar Evers (Ghost of Mississipi di Rob Reiner, 1965), Hollywood recupera un’altra figura centrale nel movimento dei diritti degli afroamericani, Martin Luther King, probabilmente il più carismatico dei tre.

Selma non è solo il primo biopic dedicato, ma anche uno dei rarissimi casi in cui il genere non scivola sulla buccia di banana dell’agiografia. MLK resta un meraviglioso fuoriclasse della parola e delle libertà, ma la santità è altra cosa, pizzicato com’è sulle virtù domestiche (amava la moglie, ma non disprezzava le altre donne) e sull’opportunismo politico. Se a questo aggiungiamo la performance tirata e penetrante di David Oyelowo, ecco che abbiamo un ritratto vivo, credibile e assai empatico di King. Ma Selma non si ferma a lui.

Il punto di forza del film di Ava DuVernay è la sua potenza centrifuga, la tensione del discorso verso i bordi, in un moto a diaframma che va dal singolo all’insieme, dall’eroe al duellante (il Lyndon Johnson chiaroscurale di Tom Wilkinson), dal protagonista all’antagonista (l’odioso George Wallace, il governatore razzista interpretato da Tim Roth), dal leader agli accoliti (tra gli altri Oprah Winfrey nel ruolo di Annie Lee Coper), dal personaggio pubblico all’uomo privato (fondamentale in questo senso il taglio proto-femminista e l’importanza riconosciuta alla moglie Corette).

La progressione a metronomo, figlia di un preciso timing interno e di un corrispondente dinamismo figurativo (prezioso il lavoro alla fotografia di Bradford Young, potente la musica), sintonizza il film sulla ritmica della marcia – quella del ’65, da Selma a Montgomery, senza ritorno: pochi mesi dopo il Congresso avrebbe approvato il Voting Rights Act che consentiva a tutti i cittadini di votare, al netto del colore della pelle – e cattura la corrente della Storia, quella dei singoli e dei popoli, di ieri e – drammaticamente - di oggi. Movimento impetuoso, appassionante, trascinante, chi può chiamarsi fuori? La storia siamo noi. Selma ce lo ricorda.